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Giudice ordinario e Giudice contabile

Giudice ordinario e Giudice contabile

 

Problematica sulla ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e contabile per danni cagionati da amministratori e dipendenti di società partecipate da enti pubblici, alla luce della più recente giurisprudenza.

di Antonio Vetro, Premessa.

 

Nell’articolo in data 16 maggio 2018 lo scrivente, fra l’altro, ha analizzato, sollevando notevoli perplessità,  l’ordinanza della Sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti n. 40/2018, su un giudizio avente per oggetto un presunto danno erariale subito dall’ATAC s.p.a. per il quale il Tribunale civile di Roma aveva declinato la propria giurisdizione e, al contempo, aveva dichiarato la giurisdizione della Corte dei conti, in ragione della natura di ATAC quale società in house del Comune di Roma.

Al contrario, la Sezione Lazio ha osservato che “ai fini del radicamento della giurisdizione contabile l’accertamento della sussistenza o meno del danno erariale va effettuata in base alla legislazione ed allo statuto vigenti all’epoca” e che, nella fattispecie, lo statuto di ATAC s.p.a. “vigente al momento delle condotte censurate dall’organo requirente”, pur potendo ritenersi soddisfare i requisiti della natura pubblica del socio proprietario della totalità delle azioni, dell’esercizio dell’attività in prevalenza a favore del socio stesso e della sottoposizione ad un controllo analogo, espressivi della natura di società in house, non contemplava che le azioni o le quote di partecipazione capitale non potessero appartenere neppure in parte a soci privati.

In conclusione la Sezione Lazio, dissentendo dalla statuizione del giudice ordinario, ha ritenuto di sollevare conflitto negativo di giurisdizione innanzi alla Cassazione ai sensi degli articoli 16 e 17, comma 3, del codice del processo contabile.

La Suprema Corte, con ordinanza n. 20687/2018 – premessa l’inapplicabilità dell’art. 16 cod. giust. cont., primo comma, in quanto tale norma disciplina il regolamento di giurisdizione ad istanza di parte e non quello di ufficio –  ha dichiarato inammissibile il regolamento di ufficio, formulando il seguente principio di diritto: “a seguito della declinatoria di giurisdizione da parte del giudice ordinario su azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci di società a partecipazione pubblica per il danno al patrimonio sociale, con affermazione della giurisdizione della Corte dei conti, la proposizione di un’azione contabile oltre tre mesi dopo il passaggio in giudicato di quella declinatoria esclude comunque che il giudizio possa qualificarsi tempestivamente riproposto ed è escluso il potere, per il giudice adito per secondo, di sollevare il regolamento di giurisdizione di ufficio di cui all’art. 17, co. 2 e 3, cod. giust. cont.”.

2) Analisi dei requisiti della società in house; ammissibilità del fallimento; possibilità del concorso fra giurisdizione ordinaria e contabile.

 

Vale la pena di rammentare che il modello gestorio in esame è di origine comunitaria: infatti la Corte di Giustizia europea, sin dalla sentenza del 18 novembre 1999, n. 107/98 (Teckal), ha statuito che l’affidamento di servizi a società c.d. in house escluda la necessità del ricorso a procedure di evidenza pubblica, in quanto in tali casi non sussistono esigenze di tutela della concorrenza.

L’art. 12 del T.U. 19 agosto 2016, n. 175, nel riordinare la materia delle società a partecipazione pubblica, ha stabilito, in particolare, che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria di società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house …”.

Con sentenza n. 30978/2017, la Cassazione ha rilevato che le società in house si inscrivono all’interno di quel fenomeno multiforme di autoproduzione di beni e servizi, per cui la Pubblica Amministrazione è legittimata ad attingere all’interno della propria compagine organizzativa attraverso affidamenti diretti all’ente in house, operante come proprio organo, senza ricorrere al mercato.

Con sentenza n. 962/2017, la Cassazione ha ribadito i connotati qualificanti la società in house: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici. Detti requisiti devono sussistere contemporaneamente e trovare il loro fondamento nelle inderogabili disposizioni dello statuto sociale. Riguardo all’intensità del controllo, cosiddetto analogo, occorre che l’ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house, i cui organi amministrativi vengono così a trovarsi in posizione di subordinazione gerarchica. Tale potere di comando è direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio in base alle regole dettate dal codice civile, e “sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale”.

Tali principi sono stati confermati nella sentenza della Cassazione n. 19108/2018.

Con sent. n. 22406/2018 la Cassazione, richiamata la sentenza n. 3196/2017, ha affermato che la scelta del legislatore di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico comporta che le società partecipate assumano i rischi connessi alla loro insolvenza pena la viola­zione delle re­gole della concorrenza e dei principi di uguaglianza e di affidamento, considerato altresì che l’art. 1 della legge fallimentare esclude dall’area della concorsualità gli enti pubblici e non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme civilistiche e quelle sul fallimento. In conclusione il Collegio ha ammesso, per le società in house, la possibilità del concorso fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, in quanto, laddove sia prospettato anche un danno erariale, deve ritenersi am­missibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile – nella fattispecie su azione di respon­sabilità esercitata dalla curatela fallimentare ai sensi dell’art. 146, comma 2, legge fallimentare, – e di un giudizio contabile risarcitorio su iniziativa del procuratore regionale della Corte dei conti, rilevata l’insussistenza della violazione del principio del ne bis in idem, stante la tendenziale diversità di oggetto e di funzione fra i due giudizi.

Fra la più recente giurisprudenza di merito, va citata la sentenza in data 2 luglio 2018 del Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di impresa.

In sentenza è stato osservato, in via preliminare, come le società in house siano riconducibili al modello societario di diritto comune, consentendosi possibili deroghe, da interpretare in senso restrittivo, ex art. 14 disp. prel. c.c., trattandosi di norme che fanno eccezione a regole generali.

E’ stato quindi posto il problema se le deroghe che le società in house introducono nei propri statuti, con particolare riguardo alle clausole che limitano i poteri degli amministratori all’ordinaria amministrazione, rispettino i limiti segnati dall’art. 16, comma 2, d.lgs. n. 175/2016, ai fini della realizzazione dell’assetto organizzativo di cui al comma 1, che prevede un controllo analogo da parte dell’ente pubblico comportante un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata e quindi a livello della c.d. alta amministrazione.

Secondo il Tribunale, la nozione di controllo analogo sembra imperniarsi, pur in assenza di un espresso richiamo all’attività di direzione e coordinamento di cui all’art. 2497 c.c., sulla eterodirezione strategica della società controllata, oltre che sulla partecipazione totalitaria o maggioritaria del capitale pubblico, piuttosto che su una situazione di asservimento totale della controllata e degli organi di essa, tale da annullarne ogni autonomia.

D’altra parte, anche se l’art. 12 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 prevede la giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, gli organi di amministrazione delle società partecipate restano comunque soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali per gli atti compiuti, nonostante l’interferenza degli organi sociali e dei soci stessi, soprattutto nei riguardi dei creditori sociali.

Si pone quindi, ad avviso del Tribunale, l’esigenza di conciliare le deroghe statutarie agli artt. 2380 bis e 2409 nonies c.c., con il diritto societario comune, dovendosi escludere che possa derogarsi completamente ad una delle norme identificative della società per azioni – nella quale categoria le società in house devono pur sempre essere ricondotte – che attribuisce la gestione dell’impresa esclusivamente all’organo amministrativo: infatti l’attribuzione della gestione alla competenza esclusiva degli amministratori rappresenta un profilo qualificante la società per azioni che vale a distinguerlo, nel sistema delle società di capitali, rispetto alla società a responsabilità limitata, fermo restando che la competenza degli amministratori può essere, in vario modo, limitata attraverso poteri di direttiva, avocazione e controllo al fine di realizzare la già citata eterodirezione strategica.

Inoltre, l’attribuzione della sola ordinaria amministrazione all’organo di gestione introdurrebbe un sistema ibrido, non tipizzato, nel quale la gestione societaria verrebbe demandata ad una molteplicità di organi, con conseguente lesione anche dei principi su cui si basa la responsabilità civile degli amministratori nei confronti della società e dei creditori sociali di cui agli artt. 2392 e ss. c.c., norme imperative ritenute inderogabili dalla Cassazione con sentenza n. 10215/2010, per la ipotizzabile carenza di responsabilità in assenza di potere nelle scelte di gestione.

In conclusione, secondo il Tribunale, limitare i poteri dell’organo amministrativo alla sola amministrazione ordinaria si pone in contrasto con l’art. 2380 bis c.c. eccedendo illegittimamente i limiti derogativi di cui all’art. 16 del Testo Unico Società Pubbliche.

3) Sintetiche osservazioni sulla massiva diffusione delle società partecipate da enti pubblici e sugli effetti derivanti dalla attuale ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e contabile per danni cagionati da amministratori e dipendenti delle società in house.

 

La Corte costituzionale, con sentenza n. 148/2009, aveva già da tempo rilevato la possibilità di forme di abuso nella istituzione di una quantità di società partecipate dalle pubbliche amministrazioni che sottraggono l’agire amministrativo ai canoni della trasparenza e del controllo da parte degli enti pubblici e della stessa opinione pubblica in contrasto con l’inderogabile principio di tutela della concorrenza e del mercato. D’altra parte la stessa Cassazione non aveva mancato di sottolineare, nell’ordinanza n. 19667/2003, che, una volta esclusa la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti dei responsabili di atti di mala gestio, “la timida attività giudiziaria (in sede civilistica) dell’ente danneggiato poteva risolversi in un sostanziale esonero da responsabilità”.

A prescindere dalle iniziative più volte annunziate per impedire l’ulteriore, gravissimo sperpero di pubblico denaro, anche attraverso attività gestorie tutt’altro che limpide, ben poco è stato fatto per combattere seriamente un fenomeno che si presta massimamente ad azioni di sottogoverno, con distribuzione di poltrone su base clientelare, con compensi indebitamente gonfiati, con assunzione di nuovo personale senza alcuna seria garanzia nel reclutamento, con conferimento di consulenze superflue, ecc.

Preso atto della mancata volontà politica di risolvere il problema alla radice, occorre limitarsi ad interpretare la normativa vigente, pur ritenuta contraria a fondamentali criteri di ragionevolezza, normativa che, irrazionalmente, esclude in via generale, ad eccezione di casi particolari, l’impulso d’ufficio del P.M. contabile nel perseguimento degli abusi causativi di danno erariale.

  1. A) La Cassazione, con sentenza n. 26283/2013, e numerose altre conformi, ha previsto una suddivisione – poi ripresa dall’art. 12 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 – nell’ambito delle società partecipate, distinguendo le società in house da tutte le altre, ai fini della giurisdizione, attribuendola per le prime alla Corte dei conti, con il solo merito di ridurre l’area di sostanziale impunità, di fatto garantita ai responsabili di atti di mala gestio.

Come già detto, con tale giurisprudenza sono indicati i connotati qualificanti la società in house, con particolare riguardo alla natura esclusivamente pubblica dei soci, non consentendosi che nello statuto sia previsto un possibile ingresso – neanche minoritario – di soci privati.

Sul punto l’art. 16, comma 1, del t.u. n. 175/2016 ha stabilito che “ le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici … solo se non vi sia partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata”.

Al riguardo va tenuto conto della giurisprudenza comunitaria: mentre alcune decisioni hanno statuito l’illegittimità dell’affidamento diretto anche quando una società, pur non essendo partecipata da privati, ne preveda nello statuto un loro possibile ingresso (es. Corte di giustizia. C.E. 21 luglio 2005, C-231/03,), altre sentenze hanno, invece, precisato che una possibile apertura ai privati non è di per sé preclusiva dell’affidamento diretto, dovendosi valutare il caso concreto (Corte di giustizia C.E. settembre 2009, C- 573/07) e non violerebbe il diritto comunitario l’affidamento diretto ad una società a partecipazione pubblica totalitaria, poi gradualmente ceduta ai privati, se al momento dell’affidamento erano presenti tutti i presupposti dell’in house (Corte di giustizia C.E. 17 luglio 2008, C­-371/0510 ).

Si ritiene preferibile l’orientamento accolto nella due ultime sentenze comunitarie, come anche ritenuto della Sez. II d’appello della Corte dei conti con sentenza n. 586/2016, che ha osservato come, nella fattispecie, “l’apertura del pacchetto azionario ai privati è rimasta ferma alle prescrizioni di legge, trattandosi di prescrizioni che – per il periodo che qui interessa – hanno trovato eco solo in un adeguamento formale dello statuto, il cui art. 5, comma 5, prevede appunto che «alla società potranno partecipare nuovi soci pubblici e privati …». In altri termini, la sostanza non corrisponde alla forma. E la sostanza è proprio nel senso che – diversamente da quanto astrattamente previsto dallo statuto – trattasi di società affidataria dell’esercizio di un pubblico servizio, il cui capitale sociale era all’epoca (e continua ad essere tuttora) integralmente detenuto dall’ente locale titolare del pubblico servizio”.

  1. B) La Cassazione, con sentenza 962/2017, riguardo all’intensità del controllo, cosiddetto analogo, ha stabilito che occorre che l’ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house, esercitando un potere di comando nei confronti degli organi amministrativi, in posizione di subordinazione gerarchica, “sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale”.

Tale interpretazione non sembra condivisibile: come giustamente osservato dal Tribunale di Roma nella citata sentenza del 2 luglio 2018, nel sistema vigente la gestione delle società per azioni è inderogabilmente affidata agli amministratori, la cui azione può essere sottoposta a controlli, anche penetranti e di notevole entità, ma mai al punto di sottrarne sostanzialmente l’autonomia gestionale, rendendo gli amministratori stessi meri esecutori di ordini impartiti da un superiore gerarchico.

D’altra parte, non si comprende entro quali limiti il procuratore contabile potrebbe agire nei loro confronti, nei casi di mala gestio, per atti ordinati dal superiore gerarchico alla cui esecuzione gli amministratori sarebbero obbligatoriamente tenuti, senza alcun margine di discrezionalità.

Né vale il richiamo alla distinzione fra atti di ordinaria amministrazione, che sarebbero normalmente consentiti, ed atti di straordinaria amministrazione, che richiederebbero l’autorizzazione del “superiore gerarchico”, in quanto il discrimine tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione è dato dalla pertinenza o meno dell’atto all’oggetto sociale, senza tener conto della sua rilevanza giuridica o economica.

In conclusione può senz’altro aderirsi alla tesi del Tribunale secondo cui la nozione di controllo analogo sembra imperniarsi, pur in assenza di un espresso richiamo all’attività di direzione e coordinamento di cui all’art. 2497 c.c., sulla eterodirezione strategica della società controllata.

  1. C) Con sentenza n. 7177/2014 la Cassazione, nell’esaminare i dati statutari di una s.p.a. in house, al fine di stabilire se fosse consentito o meno l’accesso a soci privati, ha precisato che la condizione statutaria e normativa di riferimento è quella applicabile all’epoca della condotta contestata dal procuratore contabile, “l’unica alla quale occorre far capo”.

Sul punto si impone una precisazione: l’osservazione della Cassazione è valida se la condotta ritenuta illecita abbia prodotto un danno immediato, ma non così se sia intervenuto un lasso di tempo fra condotta ed evento dannoso, e medio tempore siano intervenute modifiche normative o statutarie. Infatti, per stabilire la disciplina applicabile, nel caso di successione di norme nel tempo, deve farsi riferimento, non al momento della condotta ritenuta illegittima, bensì al momento nel quale si è perfezionata la fattispecie complessa dell’illecito amministrativo che richiede, oltre alla condotta censurabile, l’evento dannoso (Sezione Sardegna, sentenza n. 5/2016).

4) Breve osservazione conclusiva.

 

L’assurda situazione venutasi a creare con l’esponenziale incremento delle società partecipate, oltre a favorire corruzione, malgoverno e sperpero di finanze pubbliche, ha comportato notevoli incongruenze per l’improbabile connubio fra norme privatistiche e pubblicistiche, basate su principi diversi e spesso inconciliabili.

Gli effetti balzano agli occhi già dalla lettura di alcune delle sentenze citate. Così si ammette il fallimento di società pubbliche che, quale che sia la veste formale, (società e non enti pubblici), sono costituite da amministrazioni pubbliche, che gestiscono denaro pubblico, per finalità pubbliche e che, per tale motivo, non dovrebbero essere sottoposte a procedure fallimentari.

Ancora, se l’art. 12 del T.U. 19 agosto 2016, n. 175, nel riordinare la materia delle società a partecipazione pubblica, prevede “azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria di società di capitali”, ma fa espressamente “salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”, possono avanzarsi notevoli dubbi sulla concorrenza nei confronti degli stessi soggetti di azioni in sede civile e contabile per i medesimi atti di mala gestio.

Risulterebbe invece senz’altro più coerente al sistema, per le caratteristiche stesse dell’azione di responsabilità contabile, riconoscere definitivamente e senza incongrue commistioni, foriere di difficoltà interpretative, oltre che operative, la giurisdizione piena ed esclusiva della Corte dei conti sull’intero, complessivo operato degli amministratori e dipendenti in questione.

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