giovedì, Marzo 28, 2024
HomeNewsEfficacia soggettiva del nuovo codice degli appalti e società pubbliche*

Efficacia soggettiva del nuovo codice degli appalti e società pubbliche*

tutelaEfficacia soggettiva del nuovo codice degli appalti e società pubbliche*
Paola Maria Zerman– Avvocato dello Stato

False partenze ed “enigmistica giuridica”.

Se è vero che “bis dat qui cito dat” come dicevano i romani (“chi dà subito da due volte”) non si può negare che a volte la rapidità nasconde manchevolezze che ne rallentano l’azione con il rischio anche di frenarla. Arrivato in porto il nuovo codice degli appalti (d.lgs.50/2016), in tempo utile per il rispetto delle direttive europee di cui fa applicazione (la 23, 24, 25 del 2014), la nuova impalcatura giuridica rinvia però, come sottolineato dal Consiglio di Stato (parere n. 855 del 2016) a ben cinquanta atti applicativi, con non poche incertezze. Tant’è che l’ANAC (v. determinazione del 11 maggio 2016)  si sta affaticando nel dare chiarezza agli operatori sulle modalità di azione, nelle more della loro emanazione. Fattore questo, che rende ancor più complessa l’operazione dell’interprete, per sciogliere questioni  di “enigmistica giuridica” come, già ai suoi tempi, Massimo Severo Giannini definiva il groviglio di norme sugli appalti.
Complessità, invero,  connessa anche alla materia disciplinata, dovendo considerare che la regolamentazione degli appalti (di servizi) e delle concessioni (oggi introdotte nel capo III del codice, in attuazione della direttiva n. 23/2015) riflette gli stadi ancora non definiti della privatizzazione dei servizi pubblici.
Si pensi alla tortuosa dinamica che ha segnato in Italia il passaggio dallo Stato proprietario e gestore diretto dei servizi (tramite Aziende Autonome dotate di autonomia di organizzazione e contabile, quali le Ferrovie dello Stato, le Poste, l’ASST, Azienda di Stato per  servizi telefonici), e la trasformazione dapprima in Ente pubblico economico  e poi in società s.p.a., private, nella forma, ma pubbliche nella sostanza perché interamente (o prevalentemente) possedute dallo Stato.  E alla delicata fase di apertura alla concorrenza in relazione alla gestione delle “reti”, che, devono pur tuttavia rimanere in controllo pubblico in ragione del servizio alla comunità dei cittadini.
A ciò si aggiunge, tuttavia, la presenza di normativa, come quella attuale, che stante l’integrale recepimento di concetti europei e la mancanza di razionalizzazione e approccio sistematico, uniti ad una tecnica normativa spesso frettolosa, rende ancor più arduo il compito dell’operatore.
Ad iniziare dall’individuazione dei soggetti ai quali si applica la nuova normativa. Il pluralismo soggettivo – “amministrazioni” pubbliche, “organismi pubblici”, “imprese pubbliche”, “società a partecipazione pubblica”- contemplato nel codice, che ricalca la dizione del precedente e recepisce in gran parte concetti europei- non disegna una normativa chiara e sistematica di facile applicazione, ma lascia all’operatore il compito, non scevro di incertezze, (e foriero di contenzioso) di confrontarsi con la casistica e la decifrazione dei parametri alla ricerca di una luce che ne illumini la disciplina da applicare.

Diretta gestione (in house) e libera concorrenza: là dove il codice non si applica.

“Gli estremi si toccano” e ciò vale anche per l’individuazione dei soggetti pubblici esclusi dall’applicazione del codice degli appalti. I contratti esclusi (in tutto o in parte) dall’ambito di applicazione del codice sono individuati nei primi articoli del codice (titolo II art. 5-20) e giustificati dalla comune ratio di assenza del pericolo di distorsione della concorrenza, quanto meno in teoria.
Il primo caso, riconducibile al fenomeno delle c.d. società in house, si basa sul presupposto sostanziale che è l’ente pubblico stesso che agisce attraverso la “longa manus” della società.  Sicchè anche se vi è una differenza soggettiva tra amministrazione aggiudicatrice e società pubblica, in realtà l’attività è riferibile alla prima in virtù del rapporto di proprietà e controllo c.d.“controllo analogo” che la p.a. esercita nei confronti della s.p.a., la cui attività deve per l’80% essere svolta per la stessa p.a. (v. nello specifico i requisiti indicati dall’art. 5 ).
Le norme del codice, recependo l’ampia elaborazione giurisprudenziale sia interna che europea formatasi in materia, introduce una serie di figure innovative di società in house, in relazione ai rapporti esistenti tra amministrazione pubblica e società in house (che vanno dall’in house di “ secondo grado”, “congiunto” , “orizzontale” e “inverso” che ampliano sicuramente i confini dell’ “in house”, giustificativo dell’affidamento diretto, con il rischio di dubbi interpretativi e più ampie manovre di sottrazione ai meccanismi dell’ evidenza pubblica.
All’estremo opposto, rispetto a quello in cui la Società pubblica è in sostanza una alter ego della Amministrazione, si colloca l’esclusione dell’applicazione del codice ad attività “direttamente esposte alla concorrenza” (art.8).
La disciplina dell’art.8, così come l’art. 13, prevede infatti che laddove le attività oggetto di concessione  (parte III del codice) o inserite nei settori speciali (115-121 del codice) siano “direttamente esposte alla concorrenza su mercati liberamente accessibili” non si applica il codice, non ravvisandosi, evidentemente, il motivo di salvaguardia della stessa attraverso le procedure di evidenza pubblica, essendo sufficiente il rispetto dei meccanismi di mercato.
Fortunatamente la norma specifica i requisiti necessari per  determinare se un settore è direttamente aperto alla concorrenza, e regola una procedura di coinvolgimento della Commissione europea, diretta a limitare interpretazioni arbitrarie illegittimamente derogative del codice.

I contorni indefiniti dell’efficacia soggettiva.

a.  Le amministrazioni aggiudicatrici e gli organismi di diritto pubblico
Punto fermo circa l’applicazione soggettiva delle norme del codice, e quindi dell’evidenza pubblica (parte II e III), sono i contratti stipulati dalle Amministrazioni pubbliche, così come specificamente indicate dall’art. 3 (“Amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, le associazioni unioni e consorzi costituiti dagli stessi”).
Le stesse, definite quindi “Amministrazioni aggiudicatrici” ricomprendono anche “gli organismi di diritto pubblico” (art. 3 comma 1 lett. a) e lett d)) anche costituiti in forma societaria.
L’elenco non tassativo è contenuto nell’ allegato IV al codice (quali ad es. ENAC, ENAV, ANAS spa, Consip spa-quando agisce come centrale di committenza sub-centrale- Consorzi per le opere idrauliche, Consorzi per le aree industriali, Università statali, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza, Istituti superiori scientifici e culturali, Enti che gestiscono forme obbligatorie di assistenza e previdenza, comunità montane, enti preposti a servizi di pubblico interesse, enti pubblici preposti ad attività di spettacolo, sportive, turistiche e del tempo libero, Enti culturali e di promozione artistica) . Elemento unificante degli organismi di diritto pubblico è rappresentato dallo scopo (istituito per soddisfare esigenze generali di carattere non commerciale o industriale) e dalla proprietà/controllo/direzione da parte dello Stato, enti pubblici territoriali o altri organismi pubblici (oltre che dalla personalità giuridica, spesso in forma societaria).
b. Le “imprese pubbliche”
A differenza degli organismi di diritto pubblico, le imprese pubbliche, costituite in forma societaria, svolgono attività commerciale con scopo di lucro pur nel perseguimento dell’interesse pubblico (Cons. Stato n.1574 del 2012). Le stesse sono dunque contraddistinte dallo svolgimento di un’attività di mercato, anche solo potenzialmente aperto alla concorrenza. “Quindi, volendo operare una equiparazione pubblico/privato, mentre l’organismo di diritto pubblico, a prescindere dalla sua natura giuridica formale (fondazione, società di capitali, ecc.) è assimilabile ad un ente pubblico istituzionale, l’impresa pubblica riconosce il proprio analogo nell’ente pubblico economico il quale, pur con una natura formalmente pubblica, soggiace alle normali leggi di mercato ed all’interno di quest’ultimo si pone come soggetto economico”.
Anche per esse è presente l’elemento dell’influenza dominante da parte dello Stato o degli altri enti territoriali o organismi pubblici (art. 3 lett.t)
Soggette alla disciplina del codice, e quindi all’evidenza pubblica,  sono  le imprese pubbliche che “svolgono una delle attività di cui agli articoli da 115 a 121”, vale a dire quelle connesse alla gestione di reti in materia di gas, elettricità, acqua, servizi di trasporto (ferroviario, tramviario, mediante autobus ecc.), estrazione di gas, carbone o petrolio (art. 3 lett. e) 1.1, che corrisponde all’art. 208-212 seg. del “vecchio codice” 163/2006.). “ Nei settori speciali l’impresa pubblica, per ragioni legate alla peculiare conformazione del mercato, deve ritenersi “ente aggiudicatore” con la conseguenza che al solo fine della stipulazione di un contratto di appalto pubblico, pone in essere un’attività amministrativa che sia articola nelle fasi del procedimento di scelta del contraente” (Cons. Stato, parere n.968 del 2016).
Non è dunque compresa l’ampia gamma delle società a partecipazione pubblica (totale o prevalente) che svolge attività in settori diversi da quelli speciali: “Queste altre attività anzi, proprio per lo svolgersi in un mercato competitivo, paiono – salvo singole patologie comportamentali – naturalmente portate verso la compressione dei costi dei contratti, e perciò spontaneamente orientate all’apertura al mercato dei fornitori di beni e servizi: cioè verso il prezzo più basso o l’offerta economicamente più vantaggiosa, e senza che sia imposto da regole esterne…” sicchè “si deve escludere che agli appalti “estranei” ai settori speciali, di cui all’ art. 217, codice appalti posti in essere da imprese pubbliche, siano estensibili “i principi dei Trattati” a tutela della concorrenza.” (Adunanza Plenaria Cons. Stato n.16/2011 che, come altre in materia, ha anche dichiarato, in tali casi, il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo a favore di quello ordinario).
c) società pubbliche che non operano su mercati competitivi
Il nuovo codice si fa carico anche di quelle società “con capitale pubblico, anche non maggioritario” che cha hanno per oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o produzione di beni o servizi “non destinati a essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza”(art. 1 comma 3).
Ad esse si applica la disciplina prevista dai Testi unici sui servizi pubblici locali di interesse economico generale e in materia di società a partecipazione pubblica.  Disciplina, quella richiamata, in dirittura di arrivo sia per quanto concerne lo schema del decreto legislativo di attuazione della legge sui servizi locali (art. 16 e 19 l.124 del 7 agosto 2015) che in materia di società partecipate. E che prevede, a tutela della concorrenza,  la scelta del contraente o del socio attraverso procedure di pubblicità e selezione pubblica, sebbene al di fuori dell’applicazione del codice.

L’universo nebuloso delle società a partecipazione pubblica.

Se la teoria è quella sopra descritta, la pratica presenta un panorama indefinito di soggetti che operano nell’area liquida tra pubblico e privato, valendosi dei benefici dell’uno (il denaro pubblico) e dell’altro (la mancanza di controlli esterni).
Nel parere n. 968 del 21 aprile 2016 sullo schema di decreto legislativo di attuazione dell’art.18 della l.124 del 2015 (Legge “Madia”) relativo al riordino delle società a partecipazione pubblica, il Consiglio di Stato aveva rilevato la moltitudine di tali organismi attivi (dati assunti dalla relazione ISTAT 2015), ovvero circa 8000 (e cioè 7.757) di cui 5000 società a partecipazione pubblica, con netta prevalenza di quelle partecipate da enti locali.
In ben mille di queste (988) i membri del Consiglio di Amministrazione sono superiori al numero degli addetti; 2.479 società ne hanno poi meno di 20. “Tale situazione è il prodotto della cattiva qualità della regolazione, che agevola la costituzione di società o il mantenimento di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche non necessarie per perseguire dei fini istituzionali o scarsamente produttive, nonché l’inefficienza della gestione societaria” (parere n. 968 cit.) .
Il decreto legislativo in dirittura di arrivo, impone regole severe per la costituzione di nuove società pubbliche, vietandole se “non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”(art. 4) e prevedendo un piano di dismissione (art. 25) di quelle che, alla data di entrata in vigore del provvedimento legislativo, non rivestano tale caratteristica o che comunque presentino le anomalie gestionali indicate nella stessa legge (art.20).
Nell’attesa della realizzazione di tale urgente e illuminato obbiettivo, non vi è chi non veda che nel sistema del Paese, la presenza di circa 8000 società pubbliche costituisca una preoccupante “zona grigia” dove il denaro dei cittadini è utilizzato, non di rado,  per soddisfare  clientelismi, interessi personali e pratiche corruttive.

La “pia  illusione” della efficacia dello strumento privatistico per la tutela del patrimonio sociale

La peculiarità delle società a partecipazione pubblica non finiscono di alimentare dibattiti circa la delimitazione della responsabilità degli amministratori e la tutela del patrimonio societario, costituito con soldi pubblici e dunque con il denaro dei cittadini.
Il braccio di ferro tra giudice civile e Corte dei Conti circa la perseguibilità o meno dell’azione di responsabilità amministrativo-contabile a carico dei cattivi amministratori di società pubbliche, mettono in evidenza la anomalia del sistema rappresentato da organismi dalla veste privatistica (società di capitali, specie per azioni) e dal contenuto pubblicistico (la provenienza del patrimonio societario da parte della Amministrazione pubblica, quale lo Stato, la Regione, il Comune).
Con reiterate pronunce, anche recenti (v. da ultimo Cass. Sez. U. 13 aprile 2016 n. 7293), la Cassazione, quale giudice della giurisdizione, ha negato l’azione diretta di responsabilità da parte del giudice contabile, asserendo che, stante la veste privatistica, sono sufficienti i rimedi previsti dal codice civile per tutelare il patrimonio sociale (quale l’azione di responsabilità promossa dai soci e/o creditori, ai sensi degli artt.2392 e seg. c. c.).
Solo in via indiretta, laddove la cattiva gestione abbia determinato la necessità, da parte dell’Ente pubblico, di ripianare il bilancio con nuovi apporti di capitale, allora può avere spazio l’azione della Corte dei Conti  in caso di dolo o colpa grave degli amministratori o sindaci.
Nella stessa linea il Consiglio di Stato, come in precedenza ricordato, ha negato la propria giurisdizione in relazione alla attività contrattuale svolta da spa a capitale pubblico, ritenendo la esclusione della disciplina del codice degli appalti, non essendo necessaria l’evidenza pubblica, laddove le logiche del mercato assicurano a tali enti, di natura privatistica, il perseguimento migliore dell’interesse della società.
Le posizioni descritte, appaiono non sostenibili di fronte alla realtà dei fatti, incisa dal determinante fattore dell’esistenza del denaro pubblico e dalla mancanza del requisito del rischio di impresa in capo agli amministratori della società pubblica. Manca in essi, in definitiva, il requisito essenziale che identifica il soggetto come imprenditore, e cioè l’assunzione diretta del rischio di impresa. Ciò è tanto vero che, come la cronaca quotidianamente conferma, le società pubbliche, specie quelle locali, sono di frequente il ricettacolo della corruzione.
E questo per tre semplici motivi:

Perché hanno il denaro (essendo il capitale pubblico);
Perché sono di regola facilmente gestibili in ragione dell’esiguo numero dei dipendenti (si ricordi che circa 2500 spa locali hanno meno di 20 dipendenti);
Perché la nomina delle figure di vertice, strettamente collegate ai politici locali, avvengono di frequente in spregio a criteri pubblici di selezione del tipo “vinca il migliore” , seguendo, senza vergogna la regola del “vinca il più amico”.
In questa realtà, costituisce davvero una “pia illusione” l’affermazione, formalistica, di chi ritiene essere sufficienti gli strumenti privatistici per tutelare il patrimonio sociale, così come le dinamiche di mercato. Dimenticano, infatti, che laddove si presentino in realtà locali situazioni di dolosa cattiva gestione, il clima intimidatorio e di ricatto che gli amministratori disonesti pongono in essere, costituiscono un freno a qualsiasi reazione da parte di chi assiste impotente, sia esso  socio o creditore, alla dilapidazione  del patrimonio pubblico.
Solo un controllore esterno, deputato per legge alla tutela dei soldi pubblici (la Corte dei Conti) può costituire una remora al comportamento illecito, laddove l’azione del giudice penale spesso arriva troppo tardi e con armi spuntate.
Peraltro, la stessa direttiva 23/1014, impone agli Stati membri di disporre le misure adeguate per la “lotta alla corruzione e prevenzione dei conflitti di interesse” in modo da evitare qualsiasi distorsione alla concorrenza e garantire la trasparenza della procedura di aggiudicazione e la parità di trattamento di tutti i candidati e gli offerenti”(art. 35) Misure di contrasto che non possono solo essere demandate all’ANAC ma devono essere sorrette da una chiara regolamentazione anche in termini di responsabilità erariale per chi gestisce, anche se in forma privatistica, denaro dei cittadini.

Alla ricerca della trasparenza e della legalità
E’ dunque urgente porre freno ad un sistema dove una ambigua impostazione culturale, prima ancora che giuridica, permetta fenomeni di gestione poco trasparente delle risorse pubbliche, solo perchè si veste un abito privato come quello societario.
Gli operatori e la giurisprudenza devono prendere atto che la presenza del controllo da parte della Corte dei Conti  (diretto e non già quello “indiretto” conseguente alla perdita del valore della partecipazione previsto, purtroppo, anche dall’art 12 dello schema di  decreto legislativo sulle partecipate), costituisce l’unica serio argine alla disonestà, atteso che “l’utilizzo di risorse pubbliche, anche se  adottato attraverso moduli privatistici, impone particolari cautele ed obblighi in capo a tutti coloro che –direttamente o indirettamente –concorrono alla gestione di tali risorse radicandone pertanto sia la giurisdizione che il controllo della Corte dei Conti” (C. Conti sez. Controllo Veneto delib. n. 306 del 7/6/2016).
Si dovrà poi ragionare in termini di estensione delle procedure di evidenza pubblica anche alle società partecipate -al di là dell’auspicabile autovincolo delle stesse-, al di fuori dei settori speciali previsti dagli art. 115-121.
E ciò ai sensi dell’art. 4 del nuovo codice, che impone, anche per i contratti esclusi dalla sua applicazione“principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica”.
Se poi si ritenesse che in tutto e per tutto le società a partecipazione pubblica debbano agire e rispondere solo con strumenti privatistici, sarà necessario trarne le logiche conseguenze, non solo in termini di possibilità di fallimento (già riconosciuto dalla giurisprudenza v. Cass. 15 maggio 2013 n. 22209 ed esplicitamente previsto dall’art 4 del decreto legislativo sulle partecipate), ma in relazione al divieto di intervento da parte dell’Ente proprietario per ripianare il bilancio, in ragione del divieto comunitario degli “aiuti di Stato”.
Già l’art. 6 comma 19 del D.L. n. 78 del 2010 (conv. in l.122/2010) preclude la possibilità di ricapitalizzazione, da parte dell’Ente pubblico, delle proprie controllate  queste presentino delle perdite di esercizio negli ultimi tre anni.
La ratio della disposizione palesa la preoccupazione del legislatore nazionale di “evitare la violazione del divieto di erogare aiuti di Stato conseguente alla prassi, ormai consolidata, seguita dagli enti pubblici e in particolare dagli enti locali, di procedere a ricapitalizzazioni e ad altri trasferimenti straordinari per coprire le perdite di esercizio delle proprie partecipate, prassi che, come è noto, la Commissione europea sta cercando di contrastare anche al fine di garantire la massima operatività del principio di concorrenza nel mercato comune” (delib. cit. n- 306/2016 Corte dei Conti).
Si dovrà allora adottare un’impostazione culturale quanto più restrittiva in ordine alla possibilità di continue erogazioni pubbliche a società la cui costante perdita mette in rilievo la cattiva amministrazione e la diretta responsabilità dei gestori della stessa, con danno non solo per gli utenti diretti, ma per i cittadini che finanziano l’impresa.

* articolo scritto in base alla lezione tenuta presso l’Università di Padova in data 8 giugno 2016

 

[printfriendly]

2 Commenti

  1. Dall’articolo si evince che una società partecipata al 98% che opera nel mercato della vendita di acque minerali in libera concorrenza sia esclusa dal nuovo codice appalti ? L’interpretazione di quanto sopra è corretta ?

  2. SI LEGGE, TRA L’ALTRO, NEL TESTO:
    “Gli estremi si toccano” e ciò vale anche per l’individuazione dei soggetti pubblici esclusi dall’applicazione del codice degli appalti. I contratti esclusi (in tutto o in parte) dall’ambito di applicazione del codice sono individuati nei primi articoli del codice (titolo II art. 5-20) e giustificati dalla comune ratio di assenza del pericolo di distorsione della concorrenza, quanto meno in teoria.
    Il primo caso, riconducibile al fenomeno delle c.d. società in house, si basa sul presupposto sostanziale che è l’ente pubblico stesso che agisce attraverso la “longa manus” della società. Sicchè anche se vi è una differenza soggettiva tra amministrazione aggiudicatrice e società pubblica, in realtà l’attività è riferibile alla prima in virtù del rapporto di proprietà e controllo c.d.“controllo analogo” che la p.a. esercita nei confronti della s.p.a., la cui attività deve per l’80% essere svolta per la stessa p.a. (v. nello specifico i requisiti indicati dall’art. 5 ).
    SI OSSERVA
    LE IN HOUSE STRUMENTALI SONO LO STRUMENTO CON LE QUALI LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI (I VERI SOGGETTI OPERATIVI) AUTOPRODUCONO LE ATTIVITA’ DI SUPPORTO AI LORO COMPITI ISTITUZIONALI. L’AUTOPRODUZIONE, PER DEFINIZIONE, NON E’ UN’ATTIVITA’ DIRETTA AL MERCATO (OVVERO IN FAVORE DI TERZI) E, PER TANTO, NON PUO’ LEDERE IL PRINCIPIO DI LIBERA CONCORRENZA. E’ UN’ATTIVITA’ CHE NON PUO’ ESSERE DEFINITA ‘IMPRENDITORIALE’. NON INTEGRA UN’ATTIVITA’ ECONOMICA (NEI TERMINI DEFINITI DALLA UE (cfr. Corte di Giustizia).
    DA TANTO CONSEGUE CHE L’AUTOPRODUZIONE DI ATTIVITA’ STRUMENTALI SVOLTE DALLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI PER IL TRAMITE DELLE PROPRIE SOCIETA’ IN HOUSE NON SONO ASSOGGETTABILI A IVA. MANCANO I PRESUPPOSTI DI CUI ALL’ART. 9 DELLA DIR. UE 112/2006.

Rispondi a ANTONIO DI BIASE Cancella la risposta

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

ARTICOLI RECENTI