giovedì, Maggio 2, 2024
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Incarichi retribuiti e incompatibilità

Incarichi retribuiti e incompatibilità

 

Incarichi retribuiti, privi di autorizzazione, a favore di pubblici dipendenti: individuazione della giurisdizione in materia di responsabilità per violazione del regime di incompatibilità

di Antonio Vetro, Presidente on. della Corte dei conti

 

1) Esposizione sintetica della normativa più rilevante.

Il titolo V (articoli 60 e seguenti) del testo unico sul pubblico impiego, approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ha disciplinato il regime di incompatibilità vigente per i pubblici dipendenti, volto ad assicurare l’esclusività della funzione pubblica, salvo limitate deroghe; il d. lgs. n. 165/2001, nell’art. 53, comma 1, ha statuito che “resta ferma per tutti i dipendenti pubblici” la disciplina delle incompatibilità dettata dal citato t.u.

Lo stesso art. 53, al comma 7, (come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 190/2012) ha disposto che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

Sempre l’art. 53, al comma 7-bis (introdotto dall’art. 1, comma 42, legge n. 190/2012) ha precisato che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

Riguardo ai docenti e ricercatori universitari va citato l’art 6 della legge n. 240/2010 (c.d. legge Gelmini), comma 9, secondo cui “La posizione di professore e ricercatore è incompatibile con l’esercizio del commercio e dell’industria fatta salva la possibilità di costituire società con caratteristiche di spin off o di start up universitari …  L’esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime di tempo pieno …” e comma 10, secondo cui “I professori e i ricercatori a tempo pieno, fatto salvo il rispetto dei loro obblighi istituzionali, possono svolgere liberamente, anche con retribuzione, attività di valutazione e di referaggio, lezioni e seminari di carattere occasionale, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale, nonché attività pubblicistiche ed editoriali. I professori e i ricercatori a tempo pieno possono altresì svolgere, previa autorizzazione del rettore, funzioni didattiche e di ricerca, nonché compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro, purché non si determinino situazioni di conflitto di interesse con l’università di appartenenza, a condizione comunque che l’attività non rappresenti detrimento delle attività didattiche, scientifiche e gestionali loro affidate dall’università di appartenenza”.

 

2) La giurisprudenza della Cassazione.

  1. A) Con sentenza n. 25769/2015 la Cassazione, premesso che la legge n. 190/2012, che ha introdotto il comma 7-bis del citato art. 53, è entrata in vigore successivamente ai fatti di causa, si è posta il problema se la seguente regola, concernente i profili processuali: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”, fosse applicabile anche ai fatti precedenti alla nuova disposizione.

A tale quesito la Cassazione ha dato risposta positiva, perché in realtà tale regola si limita a confermare un’elaborazione ermeneutica  contenuta in un orientamento della giurisprudenza, (in particolare, Cass., sez. un., n. 22688/2011), secondo cui la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa presuppone che il soggetto, legato all’amministrazione da un rapporto d’impiego o di servizio, debba rispondere del danno da lui causato con azioni od omissioni commesse in violazione non soltanto dei doveri tipici delle funzioni concretamente svolte, ma anche di quelli ad esse strumentali.

Secondo la Cassazione, la violazione, da parte del lavoratore, del dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e del conseguente (rafforzativo) obbligo di riversare all’Amministrazione i compensi per essi ricevuti comporta la violazione di prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni, in quanto preordinate a garantirne il proficuo svolgimento, attraverso il previo controllo dell’Amministrazione, sulla possibilità, per il dipendente, d’impegnarsi in un’ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d’istituto e da tale violazione deriva un’ipotesi di responsabilità amministrativa capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti, con la precisazione che, ai fini qui considerati, la posizione dei dipendenti contrattualizzati è del tutto assimilabile a quella dei dipendenti non contrattualizzati. Una conclusione del genere non suscita nessun dubbio di legittimità costituzionale, perché contribuisce ad assicurare il buon andamento degli uffici, non distoglie i dipendenti dal loro giudice naturale (che per quanto riguarda la responsabilità amministrativa è la Corte dei conti) e non li sottopone ad alcuna irragionevole disparità di trattamento rispetto ai lavoratori privati i quali, in quanto estranei all’Amministrazione, non si trovano nella medesima posizione di quelli pubblici.

  1. B) Con ordinanza n. 19072/2016 la Cassazione, in contrasto con le conclusione del P.M. della Corte “che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice contabile”, ha sovvertito le conclusioni della sentenza 25769/2015, affermando che: “va esclusa – ratione temporis – l’applicazione alla fattispecie (ai fini che ri­levano per la determinazione della giurisdizione) dell’art 7-bis del decreto legislati­vo n. 165/2001, come introdotto dalla legge 190 del 2012”; “l’attività del dipendente era stata svolta al di fuori dell’orario di ufficio e quindi difficilmente avrebbe potuto determinare una sottrazione di energie dello stesso ai suoi compiti istituzionali”; “l’obbligo di versamento di che trattasi rappresen­ta una particolare sanzione ex lege al fine di rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico e quindi prescinde dai presupposti della responsabilità per danno (evento; nesso di causalità; elemento psicologico): la confusione dunque tra i due concetti (quello attinente alla mera reversione del profitto e quello del danno) ha portato all’estensione del limite della giurisdizione contabile al di fuori dei suoi confini isti­tuzionali”; “l’amministrazione creditrice ha quindi titolo per richiedere l’adempimento della obbligazione, senza doversi rivolgere alla Procura della Corte dei conti, la quale sarà notiziata soltanto ove si possa ipotizzare l’esistenza di danni”; “il debitore non avrebbe alcuna tutela giurisdizionale, dato che non potrebbe adire, egli, la Corte dei conti, presso la quale il processo (di responsabilità erariale) inizia esclu­sivamente ad istanza della Procura: se ne dovrebbe concludere che il dipendente, de­bitore del versamento dei compensi, può rivolgersi soltanto al giudice delle contro­versie relative al suo rapporto di lavoro”; “la responsabilità di che trattasi, se limitata all’inadempimento dell’obbligo di denuncia, senza dedurre l’esistenza di conse­guenze dannose per l’amministrazione di appartenenza, non può sottrarsi alle ordi­narie regole di riparto di giurisdizione e quindi, trattandosi di rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, alla giurisdizione del giudice ordinario; solo se ad essa si accompagnino profili di danno ( danno da immagine; danno da sottrazione di ener­gie lavorative per essersi compiuta, l’attività oggetto di denuncia, in costanza di rapporto di lavoro), allora potrà dirsi interessata la giurisdizione contabile”.
  2. C) Con sentenza n. 25975/2017 la Cassazione ha precisato che la condotta del dipendente pubblico consistente nello svolgimento di incarichi non autorizzati incide sull’esercizio delle mansioni e, oltre ad essere valutabile in sede disciplinare, è anche fonte di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti, se il dipendente non riversi i relativi compensi all’Amministrazione di appartenenza, essendo irrilevante che i fatti siano anteriori all’entrata in vigore del comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, poiché questo è stato aggiunto dalla legge n. 190/2012 solo per confermare la sussistenza della giurisdizione contabile. Inoltre ha sottolineato che a tutti i dipendenti pubblici a tempo pieno si applica il divieto dell’espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualunque forma, un compenso, salvo che lo svolgimento dell’incarico sia stato preventivamente autorizzato; la disciplina dettata dall’art. 53 cit., in materia di incarichi non autorizzati, pur potendo avere risvolti disciplinari aggiuntivi, in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma 1, dello stesso decreto, riguarda la materia delle incompatibilità, ed è quindi estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55 dello stesso testo normativo; l’obbligo di versamento del compenso dovuto al pubblico dipendente per le prestazioni rese in spregio del divieto di assunzione di incarichi senza l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, previsto dall’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in quanto imposto innanzitutto all’ente erogante (ossia ad un soggetto estraneo al rapporto lavorativo) e, solo in difetto, al lavoratore che lo ha percepito, non è configurabile come sanzione disciplinare.
  3. D) Con ordinanza n. 1415/2018 (v. anche ord. n. 5789/2018, 13239/2018, n. 30753/2018 e n. 20533/2018) la Cassazione ha ribadito quanto espresso nell’ordinanza n. 19072/2016, ritenendo che l’obbligo di versamento all’amministrazione delle somme percepite nello svolgimento di attività professionali in situazione di incompatibilità con lo status di pubblico dipendente costituisca una particolare sanzione prevista dalla legge per la violazione del dovere di fedeltà, a prescindere da quelli che sono i necessari presupposti della responsabilità per danno erariale (evento dannoso, nesso causale con una data condotta e relativo elemento psicologico), tanto più che la prestazione resa dal pubblico dipendente a favore di terzi non necessariamente implica un danno per l’Amministrazione (ben potendo il pubblico dipendente aver correttamente adempiuto tutti gli altri obblighi lavorativi malgrado lo svolgimento di altra attività non autorizzata) e che la previsione d’una fattispecie determinativa di danno risulterebbe dissonante con la quantificazione del risarcimento in misura invariabilmente coincidente con gli emolumenti indebitamente percepiti dal pubblico dipendente.

Inoltre, l’obbligo di versamento dell’indebito compenso è previsto a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore e in nessun caso la Procura della Corte dei conti potrebbe agire per danno erariale nei confronti dell’erogante, soggetto privato; infine, non sarebbe ragionevole ipotizzare una diversa giurisdizione per il recupero delle somme (contabile nei confronti del percettore, ordinaria nei confronti dell’erogante), foriera di potenziali contrasti di giudicati.

In conclusione, dalla natura sanzionatoria dell’obbligo del versamento previsto dal cit. art. 53, comma 7, deriva la giurisdizione del giudice ordinario, secondo le ordinarie regole di riparto in materia di rapporto di pubblico impiego contrattualizzato; sussiste, invece, la giurisdizione contabile solo se alla violazione del dovere di fedeltà e/o all’omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno.

  1. E) Con ordinanza interlocutoria n. 1663/2019 la Cassazione ha ritenuto di rinviare a nuovo ruolo la causa in trattazione, per acquisire una relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo che operi una ricostruzione del quadro normativo e regolamentare di riferimento, in ordine alla questione relativa alla possibilità di escludere l’illecito amministrativo de quo in ragione di una autorizzazione rilasciata in un momento successivo al conferimento dell’incarico.

La Corte ha tenuto conto delle tesi contrastanti delle parti. Secondo l’Amm.ne, la normativa in esame sottende la necessità di salvaguardare un diritto di esclusiva nel rapporto di pubblico impiego, sancito dall’art. 98 Cost. (v. Cons. Stato n. 3172 del 2015), meritevole di speciale tutela per non influenzare il buon andamento della P.A., contemplato dall’art. 97 Cost., mediante l’imposizione di un vaglio di compatibilità dell’incarico, conferito da soggetti terzi all’Amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico, e presuppone che l’autorizzazione sia necessariamente anteriore allo svolgimento del medesimo, allo scopo di impedire la concretizzazione del pregiudizio che vuole evitare. La disposizione configura un illecito di pericolo presunto o astratto, e l’aggettivo “previa” qualifica chiaramente la tipologia di provvedimento autorizzativo, precisando la tempistica della richiesta e collocandola in un ambito precedente lo svolgimento dell’incarico. Secondo la controparte, invece, un’autorizzazione con formula “ora per allora” produrrebbe effetti ex tunc, e sarebbe equivalente a quella preventiva, tanto più che il solo limite della ammissibilità per tale autorizzazione consisterebbe in un espresso divieto di legge al suo rilascio (TAR Puglia, Lecce, n. 2228 del 2007), che nel caso in esame non sussisterebbe.

 

3) La giurisprudenza del giudice amministrativo.

  1. A) Con sentenza n. 614/2013 il T.A.R. Lombardia Milano ha ricordato che l’art. 53, co. 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 trova il suo fondamento nel dettato costituzionale, in virtù della previsione, contenuta nell’art. 98 della Carta secondo cui i pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della Nazione e ha il chiaro scopo di conseguire l’obiettivo di garantire l’imparzialità, l’efficienza ed il buon andamento della pubblica amministrazione nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost. Dall’impianto normativo emerge, quindi, una presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio, restando quindi ininfluente l’accertamento dell’eventuale inosservanza di doveri di ufficio ovvero l’esistenza di situazioni di concreto conflitto con gli interessi e gli obiettivi della p.a. (cfr., T.A.R. Lazio, sez. II, 26 aprile 1990, n. 898). La situazione di incompatibilità deve, quindi, essere valutata in astratto sul presupposto che la norma mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente anche dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 1999, n. 29). Il legislatore prevede tuttavia la possibilità che in presenza di una specifica e preventiva autorizzazione rilasciata da parte dell’Amministrazione di appartenenza, il dipendente pubblico possa eccezionalmente ricoprire incarichi ulteriori al di fuori di quelli istituzionali. Nel pubblico impiego l’art. 53, co 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 si pone quale norma preclusiva ad ogni autorizzazione postuma. La somma da recuperare va computata al netto delle imposte già corrisposte, in quanto la richiesta di restituzione dei compensi illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente non può che avere ad oggetto quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente, non potendosi, invece, pretendere la ripetizione di somme al lordo delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali.
  2. B) Con sentenza n. 191/2017 (e n. 263/2017) il T.A.R. Emilia-Romagna Parma ha statuito quanto segue:
  3. I) La questione di giurisdizione proposta dall’Avvocatura dello Stato a favore del giudice contabile deve essere risolta a favore del giudice amministrativo in quanto oggetto della controversia è il provvedimento rettorale di accertamento dei presupposti dell’obbligo di versamento dei compensi percepiti dal docente universitario, stante il regime pubblicistico del rapporto di impiego in questione. La giurisdizione contabile subentra, infatti, nella fase successiva del procedimento, quando, accertato il credito della p.a., il debitore non abbia provveduto a soddisfarlo. La previsione normativa di cui al comma 7-bis dell’art. 53 del lgs. n. 165 del 2001 – secondo cui l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico, indebito percettore, costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti – è destinata a disciplinare una ulteriore fase procedimentale connessa e conseguente al mancato versamento dell’emolumento percepito per attività lavorative non autorizzate dalla p.a. Una volta riconosciuto all’amministrazione il titolo a richiedere l’adempimento dell’obbligo del versamento dei corrispettivi percepiti, ai sensi della previsione di cui all’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001, ritenere insussistente la giurisdizione del giudice del rapporto di lavoro significa privare di tutela giurisdizionale il debitore, atteso che il procedimento per responsabilità erariale avanti alla Corte dei Conti inizia esclusivamente ad istanza della Procura.
  4. II) L’ammissibilità di una autorizzazione postuma appare incompatibile con la finalità dell’autorizzazione che è, in base al disposto di cui all’art. 53, comma 7 citato, quella di verificare l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi e sarebbe un controsenso autorizzare ex post un incarico in base ad un potenziale conflitto di interessi, se si considera, altresì, che il fondamento della disciplina della norma citata deve rintracciarsi negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ovvero nelle garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati che sono a servizio esclusivo della Nazione. Sussiste in questa materia una presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio, situazione di incompatibilità che deve essere valutata in astratto, sul presupposto che la norma mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia. Infatti tale norma ha come presupposto lo svolgimento di incarichi non previamente autorizzati e non l’inadempimento dei compiti istituzionali, che semmai può costituire materia per altri procedimenti (di natura disciplinare).

III) Il comma 7 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha natura compensativa della condotta irregolare del dipendente. Non è norma che prevede una sanzione disciplinare, ma una misura reale di destinazione dei compensi in assenza di una preventiva autorizzazione. La tutela risarcitoria dell’Amministrazione resta invece affidata alle previsioni del successivo comma 7 bis dell’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che la percezione irregolare di compensi per attività extraprofessionali costituisce danno erariale soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti. Tale disposizione non determina una duplicazione di conseguenze derivanti dallo stesso comportamento, in quanto la stessa resta collegata, contrariamente al comma 7, alla gravità dell’inadempimento, alla sussistenza di un danno e al profilo psicologico dell’inadempiente. Il quadro delineato consente di chiarire che i commi 7 e 7 bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 definiscono un quadro di tutela della pubblica amministrazione nel caso in cui il dipendente intenda svolgere ulteriori attività (non precluse in via assoluta, ma soggette ad autorizzazioni) che appare del tutto ragionevole e conforme ai principi di imparzialità e buon andamento cui all’art. 97 della Costituzione.

  1. C) Con sentenza n. 4590/2016 il Consiglio di Stato ha precisato che il dovere di rispettare la regola per cui gli incarichi extraistituzionali consentiti al dipendente sono solo quelli o previamente autorizzati dall’Amministrazione o quelli dalla stessa direttamente conferiti costituisce interpolativamente (giacché introdotto per legge) null’altro che uno dei diversi doveri del dipendente che rientrano nel fascio dei suoi obblighi dovuti per effetto del rapporto lavorativo dipendente. Dal presupposto che detta regola attiene al regolare e corretto adempimento dell’attività lavorativa dipendente discende che l’inadempimento della regola incide negativamente proprio sull’esatto adempimento di detta attività e del rapporto che la implica e la regola.

Il fatto poi che l’Ateneo vanti un diritto alla refusione di una somma di denaro corrispondente ai corrispettivi percepiti da colui che ha esercitato gli incarichi in questione, ove non direttamente conferiti dall’Amministrazione datoriale né, alternativamente, dalla stessa previamente autorizzati, e che tale diritto discenda direttamente dalla legge – giacché, in pratica, diritto al ristoro per un implicito danno erariale – è un mero effetto legale connesso alla condotta non legittima.

Il recupero disposto dall’Amm.ne deve essere calcolato al netto – non già al lordo – delle imposte già assolte dal percipiente. Dirimente, al riguardo, risulta la considerazione del fatto che né la legge testualmente tanto dispone né dai principi in materia si ricava il risultato interpretativo sposato dal ricorrente. Né si inferisca che, in tal modo, l’Amministrazione potrebbe locupletare in danno delle persone soggette al recupero, riscuotendo da esse più di quanto dalle stesse effettivamente trattenuto una volta assolte le imposte. Infatti, il soggetto che patisce il recupero del credito al lordo di imposta ben può, attivandosi adeguatamente, recuperare a propria volta le imposte assolte.

  1. D) Con parere n. 01129/2018, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il disposto del comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 comporti che la responsabilità di che trattasi, se limitata all’inadempimento dell’obbligo di denuncia, senza che sia dedotta l’esistenza di conseguenze dannose per l’amministrazione di appartenenza, non possa sottrarsi alle ordinarie regole di riparto di giurisdizione e quindi, trattandosi qui di rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato, alla giurisdizione del giudice amministrativo. L’art. 98 Cost. sancisce il principio di esclusività del dipendente pubblico, che si sostanzia nel dovere di dedicare interamente all’ufficio la propria attività lavorativa senza disperdere le proprie energie in attività esterne ed ulteriori rispetto al rapporto di impiego. Di qui, la conseguenza – formalizzata nell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 per tutti i dipendenti pubblici – che ogni incarico extraistituzionale debba considerarsi evento eccezionale rispetto allo statusdi pubblico impiegato, come tale necessitante di espresse e limitate deroghe. La situazione di incompatibilità deve essere valutata in astratto, sul presupposto che la norma mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia. La suddetta previsione trova la sua evidente rationella necessità di assicurare il buon andamento della Pubblica Amministrazione, a cui la legge riconosce il diritto a un controllo preventivo degli incarichi, che potrebbero pregiudicare il corretto adempimento delle pubbliche funzioni cui i dipendenti sono preposti.

 

4) La giurisprudenza del giudice contabile.

  1. A) Con sentenza 14/2017 la Sez. Lombardia, dopo aver escluso che si versi in una fattispecie di sanzioni pecuniarie irrogate dalla Corte dei conti, quale disciplinata ex artt. 133 e seguenti del d. lgs. 26 agosto 2016 n. 174, ha osservato che la responsabilità erariale perseguita dal comma 7-bisdell’art. 53 cit. costituisca una comune ipotesi di responsabilità tipica, in cui la somma da rifondere al datore di lavoro (integrale riversamento di quanto percepito contra legem) è predeterminata per legge, ma la valutazione dell’ineseguito obbligo restitutorio e della connessa responsabilità soggiace, comunque, all’accertamento della sussistenza degli altri presupposti del giudizio di responsabilità erariale (in primis elemento soggettivo e nesso di causalità) nonché alla limitazione derivante dalla prescrizione quinquennale e contempla la possibilità di proporzionare l’entità della eventuale condanna esercitando il potere di porre a carico dei responsabili anche solo una parte del danno accertato o del valore perduto, previa valutazione delle singole responsabilità (c.d. potere riduttivo). Tale ultima affermazione porta a superare l’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dalla difesa del convenuto.
  2. B) Con sentenza n. 97/2018 la Sez. I App. ha precisato che l’art. 7 del d. lgs. n. 165 del 2001 è volto a tutelare un interesse pubblico, il dovere di esclusività del pubblico impiegato, al di fuori delle ipotesi tipicamente ed espressamente stabilite e salvo autorizzazione, interesse che non riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro con l’amministrazione di appartenenza. Infatti, se pure sussiste il dovere del soggetto, pubblico o privato, presso il quale è stata effettuata l’attività non autorizzata, di riversare all’amministrazione di appartenenza del dipendente il compenso indebitamente erogato (per essere devoluta in conto entrata del bilancio con destinazione vincolata all’incremento del fondo di produttività o dei fondi equivalenti), nondimeno un analogo e indipendente obbligo è previsto per colui che percepisce il compenso: deve quindi ribadirsi l’assoluta autonomia tra la procedura testé richiamata (obbligo dell’Amministrazione di richiedere al terzo erogatore l’importo dei compensi percepiti) e il dovere di recupero dello stesso in capo al Procuratore contabile.
  3. C) Con sentenza n. 125/2018 la Sez. Emilia-Romagna, conformemente a quanto stabilito dalla Sez. I App. con la citata sentenza n. 97/2018, ha evidenziato che il comma 7-bis del lgs. n. 165/2011 è una norma di natura non innovativa, ma meramente ricognitiva di un pregresso prevalente indirizzo tendente a radicare in capo alla Corte dei conti la giurisdizione in materia, escludendo quella del giudice ordinario, anche tenendo conto delle sentenze della Cassazione n. 19072/2016 e 8688/2017, riguardanti fattispecie diverse caratterizzate dall’opposta ipotesi nella quale era stata l’Amministrazione di appartenenza a citare in giudizio il dipendente davanti al G.O. per il mancato riversamento dei compensi indebitamente percepiti, ovvero il dipendente, al quale erano state effettuate trattenute stipendiali, a rivolgersi al G.O. per tutelare l’integrità del compenso percepito, mentre nessuna azione della Procura contabile era stata iniziata per il recupero. La Sezione ha aggiunto che l’avvio, da parte dell’Amministrazione di appartenenza, di un procedimento volto a recuperare in via amministrativa le somme percepite dal dipendente, non esclude – secondo principi consolidati – l’azione avviata ad opera della Procura, essendo le due iniziative indipendenti ed autonome fino all’eventuale pagamento disposto per l’una o per l’altra via.
  4. D) Con sentenza n. 617/2018 la Sez. II App., premesso che l’autorizzazione non possa essere oggetto di silenzio assenso, né che possa essere implicita o per relationem o rilasciata mediante nulla osta o visto, ma debba consistere in una verifica concreta della insussistenza di ragioni ostative all’espletamento dell’incarico esterno, ha ritenuto che la mancanza di autorizzazione comporti un pregiudizio che non è connesso con la mera omissione del compenso percepito, essendo riconducibile al mancato controllo da parte della Amm.ne della compatibilità dell’incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e del proficuo svolgimento in termini di adeguata destinazione di energie lavorative al principale e superiore rapporto di lavoro pubblico.
  5. E) Con sentenza n. 255/2018 la Sez. I App., diversamente da quanto affermato dalla Cassazione con le citate sentenze n. 19072/2016 e 1415/2018, ha ritenuto quanto segue:

– L’art. 53, comma 7, del d.lgs n. 165/2001 non costituisce affatto una particolare sanzione riconducibile nell’alveo delle sanzioni connesse alle violazioni di obblighi di servizio contrattualmente rilevanti in ambito “privatistico”, bensì un’ipotesi di condotta tipizzata produttiva di danno erariale, la cui consistenza è presuntivamente quantificata. L’eventuale omesso riversamento, quindi, viene in rilievo non come autonoma condotta, ma quale momento in cui il danno, già realizzatosi con lo svolgimento di funzioni extra-istituzionali non autorizzate, si manifesta come concreto ed attuale, integrando l’interesse ad agire del Pubblico Ministero contabile.

– La stessa Cassazione, nella sentenza n. 25975/2017, ha riconosciuto che “la condotta del dipendente pubblico consistente nello svolgimento di incarichi non autorizzati incide sull’esercizio delle mansioni e oltre ad essere valutabile in sede disciplinare è anche fonte di responsabilità erariale”… “la disciplina dettata dall’art. 53 cit., in materia di incarichi non autorizzati, pur potendo avere risvolti disciplinari aggiuntivi, riguarda la materia delle incompatibilità, ed è quindi estranea all’ambito delle sanzioni…”.

– Risulta irrilevante l’osservazione della Cassazione riguardo alla mancata puntualizzazione dei presupposti della responsabilità erariale (evento dannoso, nesso causale ed elemento psicologico), in relazione alla condotta individuata dalla norma, tenuto conto che la norma stessa, limitandosi a tipizzare una species annoverabile nel più ampio genus della responsabilità amministrativa, omette ovviamente di ribadirne i presupposti.

– Non è condivisibile l’ulteriore assunto della Cassazione, secondo cui “la prestazione resa dal pubblico dipendente a favore di terzi non necessariamente implica un danno per l’amministrazione (ben potendo il pubblico dipendente aver correttamente adempiuto tutti gli altri obblighi lavorativi malgrado lo svolgimento di altra attività non autorizzata)”, dovendosi osservare, al contrario, che la funzione della norma è proprio quella di introdurre una fattispecie di tutela rafforzata, in materia di incompatibilità, con la tipizzazione di una condotta, cui presuntivamente, ex lege, viene ricollegato un danno erariale, quantificato in relazione alle somme percepite, verosimilmente in ragione della difficoltà di stabilire l’esatta quantificazione del danno.

– Privo di pregio è poi il rilievo della Cassazione secondo cui “la previsione d’una fattispecie determinativa di danno risulterebbe dissonante con la quantificazione del risarcimento in misura invariabilmente coincidente con gli emolumenti indebitamente percepiti dal pubblico dipendente”, tenuto conto che l’utilizzo di un criterio predeterminato di modulazione, nella quantificazione del risarcimento del danno, non è un caso isolato in materia di risarcimento del danno erariale: basti ricordare quello introdotto per il danno all’immagine dall’art. 1, comma 62, della legge n. 190/2012, secondo cui detto danno “si presume pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.

– Priva di fondamento è l’affermazione della Cassazione, secondo cui “se il mero percepire da terzi determinati compensi costituisse di per sé ipotesi di responsabilità erariale, dovrebbe essere attivata soltanto ad iniziativa della Procura della Corte dei conti …ma  in nessun caso la Procura della Corte dei conti potrebbe agire per danno erariale nei confronti dell’erogante, poiché … il terzo che abbia erogato compensi al pubblico dipendente in corrispettivo della prestazione da lui resa non è in rapporto alcuno con la pubblica amministrazione da cui dipende il percettore, di guisa che non potrebbe mai essere evocato in un giudizio per responsabilità erariale”. Infatti – a prescindere che la circostanza che il compenso da riversare possa essere richiesto prioritariamente all’ente erogatore, non parte del rapporto contrattuale lavoristico, induce ad escluderne la natura sanzionatoria dell’addebito – nulla osta che l’Amministrazione di appartenenza, come in tutti i casi in cui abbia subito un danno, possa attivarsi autonomamente per ottenerne il risarcimento e tuttavia, laddove il credito sia contestato, la stessa non sembra possa legittimamente procedere ad attività esecutive prima che il credito diventi certo, liquido ed esigibile e, quindi, prima che sia accertata la sussistenza della responsabilità erariale del dipendente derivata dallo svolgimento di attività extra-istituzionali senza autorizzazione, accertamento demandato chiaramente, dall’art. 53, comma 7 bis, alla giurisdizione della Corte dei Conti.

 

5) Criteri da osservare per il conferimento degli incarichi.

Come si è visto, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni non possono svolgere incarichi retribuiti conferiti da altri soggetti, pubblici o privati, fatta salva specifica autorizzazione dall’amministrazione di appartenenza.

Tale autorizzazione deve essere conferita nell’ambito di criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto delle specifiche professionalità, al fine di evitare che i dipendenti svolgano attività vietate per legge o che li impegnino in modo eccessivo e incompatibile con il corretto espletamento dei doveri d’ufficio o, infine, che determinino un conflitto d’interesse contrastante con l’esercizio imparziale delle funzioni di competenza.

L’attribuzione degli incarichi privi di autorizzazione comporta gravi conseguenze ed in particolare: sanzioni disciplinari a carico del funzionario responsabile del procedimento; nullità del provvedimento; versamento all’amministrazione di appartenenza del compenso dell’incarico da parte dell’erogante o, in difetto, del percettore e destinato ad incrementare il fondo per la produttività; sanzioni disciplinari a carico del dipendente.

Ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 39/2013, l’Autorità nazionale anticorruzione vigila sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche, degli enti pubblici e degli enti di diritto privato con controllo pubblico, delle disposizioni in materia, esercitando poteri ispettivi e di accertamento.

Nel documento stilato a conclusione del tavolo tecnico in attuazione dell’Intesa sancita in Conferenza unificata del 24 luglio 2013, con il concorso dei rappresentanti del Dipartimento della funzione pubblica, delle Regioni e degli Enti locali, al fine di supportare le amministrazioni nell’applicazione della normativa in esame e nella elaborazione dei regolamenti e degli atti di indirizzo, sono stati indicati i “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici dipendenti” a tempo pieno o con percentuale di tempo parziale superiore al 50%, con particolare riguardo agli incarichi che presentino le caratteristiche di abitualità e professionalità, che comportino conflitto di interessi e infine che, a prescindere dalla consistenza dell’orario di lavoro, interferiscano con l’attività ordinaria svolta dal dipendente pubblico in relazione al tempo, alla durata, all’impegno richiestogli, tenendo presenti la qualifica, il ruolo professionale e le funzioni attribuite.

Per quanto riguarda i docenti e ricercatori universitari, la già citata c.d. “legge Gelmini” (legge n. 240/2010), ad un primo esame, sembra abbia ampliato in modo indiscriminato la possibilità per i docenti di conseguire incarichi esterni.

A prescindere dalla, assai discutibile, opportunità di fare riferimento a categorie individuate con termini in lingua estera come “spin-off o start-up” (organismi di diritto privato finalizzati all’impiego imprenditoriale dei risultati della ricerca universitaria per sviluppare prodotti o servizi innovativi), va rilevato come la legge autorizzi tali incarichi facendoli rientrare in categorie astratte, richiamando genericamente “compiti istituzionali o gestionali” o “attività di valutazione e di referaggio”, o “attività di consulenza” quest’ultima ammessa, in modo indiscriminato “liberamente anche con retribuzione”.

Riguardo alle consulenze, al fine di un’opportuna delimitazione degli incarichi ammessi, in piena armonia con gli inderogabili principi costituzionali di esclusività della pubblica funzione (art. 98), dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97), la Sez. I App. di questa Corte, con sentenza n. 80 del 17.3.2017, condividendo la sentenza n. 37/2015 della Sez. Emilia-Romagna, ha precisato che “deve ritenersi che l’art. 6, comma 10, per i docenti a tempo pieno, vada letto unitamente al successivo comma 12, dedicato ai professori a tempo definito, per i quali, invece, l’unico limite per lo svolgimento delle attività libero-professionali è costituito dall’assenza di conflitto di interesse con l’ateneo di appartenenza. … L’attività di consulenza, pertanto, non va intesa come qualcosa di diverso dalla collaborazione scientifica, di cui conserva la stessa natura e caratteristiche e non può in ogni caso coincidere, confondendosi, con l’attività libero-professionale con il privato o con il pubblico. Tale attività non è possibile per il comma 9 in quanto “L’esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime di tempo pieno”.  Diversamente opinando, infatti, il divieto sarebbe facilmente aggirabile, per i professori a tempo pieno, indicando come mere consulenze incarichi che, invece, hanno natura libero professionale”. Secondo la Corte, le consulenze ammesse non debbono fornire risoluzione a problematiche concrete in materia scientifica; in via generale, non debbono comportare conflitto di interesse con l’Amministrazione di appartenenza, non possono essere espletate con continuità ma solo occasionalmente e infine necessitano di previa autorizzazione.

Sul tema delle consulenze è intervenuto, in particolare, lo “Atto d’indirizzo” del M.ro dell’Istruzione, avente ad oggetto l’aggiornamento 2017 al Piano nazionale anticorruzione – Sezione Università – approvato con delibera ANAC 22.11.2017 n. 1208, nel quale si suggerisce alle università di controllare soprattutto il profilo della necessaria occasionalità di tali attività, dunque non abituale ma saltuaria e a carattere non professionale e della necessaria prevenzione di possibili conflitti di interesse.

 

6) Le difficoltà interpretative di una carente normativa, in presenza di una giurisprudenza contrastante.

La normativa vigente che disciplina la materia delle incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi dei lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni presenta margini di incertezze, aggravati da una giurisprudenza contrastante fra le diverse giurisdizioni ed anche nell’ambito della medesima giurisdizione, come si è visto dall’esposizione delle anzidette sentenze, sia pure limitata, per motivi di brevità, ad alcune fra le più rappresentative.

Preso atto di tali contrasti, anche se, come si potrà accertare, in buona parte ingiustificati, in quanto non mancano sentenze basate su osservazioni non solo contrarie alla lettera della legge ma anche ai principi costituzionali di ragionevolezza, si sente l’impellente necessità di una norma innovativa o interpretativa che valga ad impedire che venga perpetrato un indebito svuotamento della giurisdizione della Corte dei conti in materia.

A mero titolo esemplificativo si indica una possibile statuizione, come la seguente:

“In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. L’omissione del versamento del compenso a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

Si potrebbe obiettare che osterebbe a tale normativa la carenza di un rapporto di servizio fra l’erogante e la P.A. di appartenenza del dipendente, ma a tale eccezione potrebbe rispondersi osservando che, come in molti altri casi pacificamente ammessi, potrebbe sostenersi l’eccezionale inserimento dell’erogante nell’attività amministrativa della predetta P.A., nel senso di pregiudicarne il funzionamento, attraverso l’attribuzione di incarichi privi della necessaria autorizzazione – della cui sussistenza l’erogante stesso era tenuto a sincerarsi – in violazione degli anzidetti principi costituzionalmente garantiti della esclusività, dell’imparzialità e buon andamento della funzione pubblica, fatte salve limitate eccezioni. D’altra parte, in buona sostanza, il soggetto, pubblico o privato, che attribuisce un incarico retribuito al pubblico dipendente, erogando il relativo compenso, senza curarsi di accertare se sia stata emessa la necessaria autorizzazione, sarebbe da ritenere corresponsabile del danno erariale provocato alla P.A., unitamente all’indebito percettore.

A parte tali considerazioni, de jure condendo, occorre valutare l’attuale situazione, soprattutto alla luce dell’attuale, del tutto inaccettabile, indirizzo giurisprudenziale della Cassazione.

Eppure la stessa Cassazione, fino al 2015 (sentenza n. 25769/2015), aveva statuito in materia con impeccabili argomentazioni, inspiegabilmente sovvertite con ordinanza n. 19072/2016, in contrasto con le conclusione del P.M. della Corte e supinamente confermate nelle citate statuizioni del 2018. Viene da pensare che, in questo caso, sia stato applicato il principio vigente in campo economico, secondo cui, quando due monete coesistono, la moneta cattiva scaccia quella buona.

Tutte le motivazioni addotte a giustificazione dell’inspiegabile capovolgimento interpretativo sono prive del benché minimo fondamento, in contrasto con la lettera della legge sulla giurisdizione del giudice contabile, di cui sostanzialmente si svuota il contenuto, inserendo condizioni ostative di cui non è dato ravvisare la benché minima traccia normativa, come quando si afferma apoditticamente che tale giurisdizione sussisterebbe solo in presenza di particolari profili di danno, come il danno da immagine o da sottrazione di ener­gie lavorative.

E’ opportuno adesso analizzare partitamente le affermazioni della Cassazione contenute nell’ordinanza n. 19072/2016 e nelle citate statuizioni del 2018:

I)”Va esclusa – ratione temporis – l’applicazione alla fattispecie dell’art 7-bis del decreto legislativo n. 165/2001, come introdotto dalla legge 190 del 2012”.

Sul punto è sufficiente richiamare la sentenza n. 25769/2015 della stessa Cassazione (v. anche, sentenza n. 25975/2017)   che ha giustamente osservato come tale norma si limiti a confermare un’elaborazione ermeneutica  giurisprudenziale, (v., in particolare, Cass., sez. un., n. 22688/2011), secondo cui la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa presuppone che il soggetto, legato all’amministrazione da un rapporto d’impiego o di servizio, debba rispondere del danno da lui causato con azioni od omissioni commesse in violazione non soltanto dei doveri tipici delle funzioni concretamente svolte, ma anche di quelli ad esse strumentali e la violazione, da parte del lavoratore, del dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi e di riversare i compensi ricevuti comporta la violazione di prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni, ed al loro proficuo svolgimento, attraverso il previo controllo dell’Amministrazione, che un’ulteriore attività avvenga senza pregiudizio dei compiti d’istituto.

  1. II) “L’attività del dipendente era stata svolta al di fuori dell’orario di ufficio e quindi difficilmente avrebbe potuto determinare una sottrazione di energie dello stesso ai suoi compiti istituzionali”.

Trattasi di un’affermazione che non può essere presa in seria considerazione, in quanto fuori dalla realtà (basti pensare agli effetti devastanti, sulla corretta attività lavorativa di competenza, di una defaticante ulteriore attività privata), ed inoltre in manifesto contrasto con la specifica ratio che informa tutta la normativa sulla incompatibilità, come illustrata nella giurisprudenza consolidata. In materia, confronta, fra le tante:

T.A.R. Lombardia n. 614/2013 e Cons. Stato n. 29/1999:

La situazione di incompatibilità deve essere valutata in astratto sul presupposto che la norma mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente anche dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia; T.A.R. Emilia-Romagna Parma n. 191/2017 e n. 263/2017:

Il fondamento della disciplina della norma citata deve rintracciarsi negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ovvero nelle garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati che sono a servizio esclusivo della Nazione. Sussiste in questa materia una presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio;

Consiglio di Stato n. 01129/2018:

L’art. 98 Cost. sancisce il principio di esclusività del dipendente pubblico, che si sostanzia nel dovere di dedicare interamente all’ufficio la propria attività lavorativa, senza disperdere le proprie energie in attività esterne ed ulteriori rispetto al rapporto di impiego.

III) “L’obbligo di versamento di che trattasi rappresen­ta una particolare sanzione ex lege al fine di rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico”.

Tale osservazione, per dimostrare la carenza di giurisdizione del giudice contabile, non solo è errata ma è anche inconcludente, in quanto non sussiste alcun nesso fra la premessa (la natura di sanzione) e la conclusione (la carenza di giurisdizione).

In primo luogo sono numerosi i casi, previsti dalla legge, di giurisdizione del giudice contabile in ipotesi sanzionatorie: cfr., in particolare, art. 30, comma 15, della legge n. 289/2002; art. 3, comma 44 e comma 59, della legge n. 244/2007; art. 20, comma 12, del d.l. n. 98/2011 convertito in legge n. 111/2011; art. 148, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 come modificato dall’art. 3, del d.l. n. 174/2012 convertito in legge n. 213/2012, nei quali sono previste violazioni sanzionate indipendentemente da un concreto danno erariale, ipotesi previste anche nel codice di giustizia contabile, d. lgs. 26 agosto 2016 n. 174, al capo III, riguardante i casi di responsabilità sanzionatoria pecuniaria, titolo V (riti speciali) parte II (giudizi di responsabilità), artt. 133 e segg.

In secondo luogo, non è affatto vero che si è in presenza di ipotesi sanzionatorie, come anche rilevato in giurisprudenza:

Cassazione n. 25975/2017:

La disciplina dettata dall’art. 53 cit., in materia di incarichi non autorizzati, riguarda la materia delle incompatibilità, ed è quindi estranea all’ambito delle sanzioni;

T.A.R. Emilia-Romagna Parma n. 191/2017 e n. 263/2017:

Il comma 7 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 ha natura compensativa della condotta irregolare del dipendente, non è norma che prevede una sanzione disciplinare, ma una misura reale di destinazione dei compensi in assenza di una preventiva autorizzazione;

Sez. Lombardia C.d.c. n. 14/2017:

Va escluso che si versi in una fattispecie di sanzioni pecuniarie irrogate dalla Corte dei conti, quale disciplinata ex artt. 133 e seguenti del d. lgs. 26 agosto 2016 n. 174;

Sez. I App C.d.c. n. 255/2018:

L’art. 53, comma 7, del d.lgs n. 165/2001 non costituisce affatto una particolare sanzione riconducibile nell’alveo delle sanzioni connesse alle violazioni di obblighi di servizio contrattualmente rilevanti in ambito “privatistico”, bensì un’ipotesi di condotta tipizzata produttiva di danno erariale, la cui consistenza è presuntivamente quantificata.

  1. IV) “La responsabilità di che trattasi, se limitata all’inadempimento dell’obbligo di denuncia, senza dedurre l’esistenza di conse­guenze dannose per l’amministrazione di appartenenza, non può sottrarsi alle ordi­narie regole di riparto di giurisdizione e quindi, trattandosi di rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, alla giurisdizione del giudice ordinario”.

In proposito è sufficiente osservare che la responsabilità di cui si discute non deriva affatto dal mero “inadempimento dell’obbligo di denuncia”, bensì dalla “omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore” (art. 53, comma 7-bis d. lgs. n. 165/2001).

  1. V) “L’obbligo di versamento di che trattasi rappresen­ta una particolare sanzione … e quindi prescinde dai presupposti della responsabilità per danno (evento; nesso di causalità; elemento psicologico).

Trattasi di affermazione censurabile sotto molteplici profili: a) come si è visto, l’obbligo di versamento non ha affatto natura sanzionatoria; b) anche se avesse natura sanzionatoria, ciò non comporterebbe affatto l’eliminazione dei presupposti della responsabilità: basta citare, per quanto riguarda l’elemento soggettivo,  l’art. 3 della legge n. 689/1981, secondo cui, “nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa” la responsabilità è subordinata ad una condotta “dolosa o colposa”; c) l’obbligo di versamento ha natura risarcitoria del danno provocato dal dipendente che ha agito in violazione dei principi di esclusività della funzione pubblica solennemente affermati dalla Costituzione negli articoli 97 e 98 della Costituzione, i quali prescrivono imprescindibili garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati che sono a servizio esclusivo della Nazione.

  1. VI) “Il debitore non avrebbe alcuna tutela giurisdizionale, dato che non potrebbe adire, egli, la Corte dei conti, presso la quale il processo (di responsabilità erariale) inizia esclu­sivamente ad istanza della Procura: se ne dovrebbe concludere che il dipendente, de­bitore del versamento dei compensi, può rivolgersi soltanto al giudice delle contro­versie relative al suo rapporto di lavoro”.

Trattasi di osservazione del tutto errata, in quanto il dipendente presunto debitore può senz’altro rivolgersi al giudice contabile ai sensi degli artt. 57 del r.d.1038/1933, 58 del r.d. n. 1214/1934, 172, primo comma, lett. b) del d. lgs. n. 174/2016 che prevedono il ricorso, ad istanza di parte, contro ritenute su stipendi ed altri emolumenti di funzionari ed agenti ed, in generale, per l’accertamento negativo della responsabilità amministrativo-contabile.

VII) “La previsione d’una fattispecie determinativa di danno risulterebbe dissonante con la quantificazione del risarcimento in misura invariabilmente coincidente con gli emolumenti indebitamente percepiti dal pubblico dipendente”.

A dimostrare che non sussiste alcuna “dissonanza” è sufficiente ricordare che la quantificazione del risarcimento è prevista in altre fattispecie di danno erariale, come ad esempio nel caso di danno all’immagine, (art. 1, comma 1 sexies, della legge n. 20/1994, introdotto dalla legge n. 190/2012), secondo cui “ Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente.

VIII) “Non sarebbe ragionevole ipotizzare una diversa giurisdizione per il recupero delle somme (contabile nei confronti del percettore, ordinaria nei confronti dell’erogante), foriera di potenziali contrasti di giudicati”.

Sulla ammissibilità della coesistenza di due diverse giurisdizioni – anche se sarebbe sommamente opportuno disporre, come già detto, la concentrazione delle due ipotesi nell’ambito di un’unica giurisdizione, quella della Corte dei conti – basti ricordare, nei casi di danni erariali conseguenti a reati, come sia prevista la coesistenza fra l’azione risarcitoria della Pubblica Amministrazione in sede di costituzione di parte civile e l’azione risarcitoria del P.M. contabile in sede di giudizio di responsabilità. Come ricordato dalla Sez. I App. C.d.c. nella sentenza n. 2/2003, l’assoluta reciproca autonomia dei giudizi e della diversità delle azioni esercitate è stata affermata dalla Cassazione SS.RR. nella sentenza 18 aprile 1996, n.22/96.

  1. IX) Nella fattispecie, “solo se ad essa si accompagnino profili di danno (danno da immagine; danno da sottrazione di ener­gie lavorative per essersi compiuta, l’attività oggetto di denuncia, in costanza di rapporto di lavoro), allora potrà dirsi interessata la giurisdizione contabile”.

La Cassazione si è indebitamente sostituita al legislatore, introducendo surrettiziamente, pur di estendere la giurisdizione del giudice ordinario, condizioni ostative alla giurisdizione della Corte dei conti che non hanno il benché minimo riscontro nella disposizione in esame, che non contiene limitazioni di sorta, stabilendo, puramente e semplicemente, che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

In conclusione, si avverte l’impellente necessità di un urgente intervento risolutivo in sede legislativa al fine di evitare che l’attuale situazione, manifestamente aberrante, debba prolungarsi nel tempo.

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