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La responsabilità amministrativa tra controllo indipendente esterno ed esercizio dell’attività giurisdizionale della Corte dei conti. L’evoluzione connessa al PNRR

*dell’avv. Federica Scalia, Ricercatrice dell’Istituto “Max Weber”

SOMMARIO: Premessa; 1. Un fenomeno che assume dimensioni sempre più ampie e pervasive, la “paura della firma. Ma quali sono le cause?; 2. La decisione normativa assunta dal Governo, nel maggio del 2021 e la migliore esecuzione possibile da garantire al PNRR; 3. I tentativi di reiterazione, nel 2023, di un sistema che affievolisce il dovere di dover essere diligente da parte del dipendente pubblico; 4. La presa di posizione della Corte di conti sarà tenuta in considerazione?

Premessa

Sempre nell’intento di portare in evidenza i comportamenti tenuti dalle diverse burocrazie al verificarsi di quelle che sono state indicate come le tappe di un lento ma inesorabile processo di ammodernamento delle pubbliche Istituzioni, non si può fare a meno di riflettere sulla stretta correlazione che esiste tra gli effetti dell’attività di controllo (segnalazione della condotta illegittima o non regolare) e l’attività decisoria che si è chiamati ad esprimere in ordine al danno arrecato all’Erario, attività che si concentrano in un solo Organo magistratuale, quello della Corte dei conti.

La domanda che ci si pone da sempre rimane questa: è più utile rafforzare una attività dai contorni sollecitatori/di indirizzo (controllo indipendente esterno) o è più giusto fare leva su una attività repressiva della cattiva condotta di chi abbia mal utilizzato risorse finanziarie pubbliche?

Ma, alla fine, tutte le volte che si è posto mano a una riforma (o anche a un semplice ritocco) delle due funzioni della Corte dei conti, e dei poteri (di controllo e di giurisdizione) esercitabili dalla sua Magistratura, il Legislatore si è dimostrato attento a saper cogliere gli effetti diretti o indiretti che sarebbero nati/derivati da questo o da quell’intervento normativo? In effetti, non è semplice dare una risposta univoca.

I richiami che si avrà cura di fare – anche se rapidi, nel corso della trattazione – forniranno ragione di un comportamento ondivago o, comunque, non lineare tenuto dai Governi del tempo.

Anzi, in alcune occasioni storiche (1994/2005, con l’introduzione del controllo sulla gestione, come accertamento dei tempi, modi e costi dell’azione amministrativa; 2005/2012, con l’introduzione del controllo finanziario sui bilanci pubblici, a seguito della soppressione degli articoli 125 e 130 Cost.) esso è apparso assai ambiguo; infatti, si è inteso attribuire nuovi e più penetranti valori e significati alla funzione del controllo ma senza assicurare all’Organo che l’ avrebbe dovuto svolgere alcuna “copertura amministrativa”, e ciò si verificava contestualmente a una tendenza a voler sminuire il ruolo del Pubblico ministero presso la Corte dei conti.

Perché tutto questo? Una risposta va ricercata, anche a distanza di tempo, per dare una giustificazione “storica” ai processi decisionali assunti dalle parti in causa (decisori politici, accademici, avvocature).

E’ indubbio che, nel contesto delle Istituzioni pubbliche e tra gli operatori (burocrazie) delle stesse, si sia andata formando una profonda convinzione: che la funzione del controllo (da troppo tempo appiattita sul solo parametro della legittimità dell’atto amministrativo) finisce per rivelarsi complementare all’attività giurisdizionale di accertamento della responsabilità amministrativa, rientranti ambedue nella sfera di competenza della Corte dei conti.

Si tratta, al di là dei dibattiti dottrinali e delle teorie che hanno condizionato l’evolversi delle due funzioni, di una “vision” che si può qualificare confusa, dai contorni non ancora definiti nella loro pienezza, incompleta.

E che l’interpretazione data alle due funzioni fosse da tempo tale da creare confusione sulla finalità che ognuna di esse gioca nel contesto ordinamentale, è da ascrivere a un “errore di prospettiva” dei nostri Padri costituenti diventato un “errore istituzionale”: il fatto che il sistema di controllo sulle finanze pubbliche è risultato presidiato – fino all’anno 2001 – da tre articoli della Costituzione, che contengono l’indicazione di tre diversi organi chiamati a dire la loro sulla “gestione finanziaria” dei tre “grandi gruppi” delle nostre Istituzioni (Stato, con l’at.100,2 c.; Regioni, con l’art. 125; Enti locali, con l’art. 130).

Questo si registra sul versante del controllo. Ma a questa situazione (che sembra permanere ancora) se ne aggiunge un’altra, abbastanza singolare sul versante della giurisdizione chiamata a decidere sul danno arrecato all’Erario: la convivenza, fino al 1992 – anno in cui il Parlamento ha devoluto la materia al Giudice della Corte dei conti -, di due Giudici, la Magistratura ordinaria, competente, in base a una legge del periodo fascista (e che aveva quale unico scopo la tutela dell’onore del “podestà” in quanto organo politico) a giudicare gli amministratori e i dipendenti degli Enti Locali, e la Magistratura contabile, competente a giudicare gli altri dipendenti pubblici.

Quando, poi, il Parlamento inizia a decentrare la funzione giurisdizionale dell’accertamento della responsabilità amministrativa della Corte dei conti[1], istituendo, nelle Regioni a statuto ordinario, anche tre Procure presso alcune di esse (in particolare, in Campania, in Puglia e in Calabria) con l’obiettivo di contrastare la “maladministration” conseguente alla infiltrazione nei Comuni di tali aree di presenze malavitose, la situazione non migliora di molto.

E ciò per due ordini di ragioni:1. perchè si opera uno spostamento, dal centro (Procura generale) di Magistrati requirenti che presenta il carattere della precarietà (richiedendosi la disponibilità al trasferimento o alla doppia assegnazione); 2. perché le carenze di organico, in quel periodo storico, non vengono assolutamente colmate, anzi esse si aggravano, nonostante l’impegno posto nella formulazione di specifiche richieste di copertura degli organici ai Governi fatte della Presidenza della Corte.

Questa ultima valutazione si presenta a conferma di un interesse, purtroppo solo apparente, della classe politica del tempo ad assegnare un vero ed efficace ruolo di presidio di legalità alla Corte dei conti nell’ordinamento italiano[2].

Sembra opportuno osservare come, fino a tempi assai recenti, le puntuali prese di posizione del Governo Ciampi non si siano pienamente realizzate.

Di ciò danno dimostrazione le stesse Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti quando i loro programmi di controllo 1.o non vengono pubblicati sui rispettivi siti (con episodi di mancato aggiornamento); o, se pubblicati, mancano della parte riguardante i controlli da effettuare tenendo conto, nello svolgimento delle indagini, dei parametri della economicità, della efficienza, della efficacia.

Infatti, è dato di leggere nella Relazione governativa di accompagnamento (A.S. n.1656 – XI Legislatura) alla conversione in legge del decreto-legge 15 novembre 1993,n.453: “Strumenti e misure niente affatto alternativi alla sanzione penale degli illeciti compiuti da pubblici amministratori e dipendenti, ma dotati della capacità di interdire ulteriori svolgimenti pregiudizievoli della attività amministrativa ,una volta che di queste siano emerse illegittimità o patologie non necessariamente a rilevanza penale. Quindi, strumenti e misure aggiornati ed efficaci, specificamente destinati a combattere la cattiva amministrazione, la dilapidazione del denaro pubblico, l’uso privato delle risorse pubbliche, le disfunzioni amministrative, l’infiltrazione della criminalità organizzata nei pubblici appalti”.

Forse sono queste le parole che sembrano addossare alla attività di controllo finalità che alcuni Magistrati della stessa Corte continuano a ritenere essere di esclusiva prerogativa della funzione requirente. Una interpretazione che, invece, va del tutto abbandonata[3], ove solo si considerasse che il “nuovo modo di fare controllo” avrebbe dovuto essere semplicemente normato dalla Magistratura del controllo indipendente esterno a ridosso della entrata in vigore dell’art. 3, c.4 e 8, della legge n. 20/94.

La storia, che va necessariamente raccontata, dell’avversione dimostrata dalle Regioni e dagli Enti Locali[4] nei confronti di disposizioni normative riguardo alla funzione del controllo indipendente esterno, che avrebbe dovuto svolgere la Corte dei conti con la legge n. 20/94[5], fornisce un contributo chiaro alla comprensione di quella che avrebbe voluto essere (e che non è stata per diversi anni) la politica del controllo indipendente esterno in Italia.

Eppure, sul fatto che il controllo indipendente esterno della Corte dei conti non avrebbe potuto essere assimilato a quello della Ragioneria generale dello Stato si era trovata una certa quale unanimità di consensi politici già alcuni anni prima.

 Quando il Senato della Repubblica, con un Quaderno di riflessioni pubblicato nel luglio del 1982, titolato “Funzioni di controllo: rapporti tra la Corte dei conti ed il Parlamento”, chiamato ad approvare il testo di riforma del controllo (A.S.n.1302) presentato dal Governo in carica, aveva richiesto di audire alcuni dei Magistrati[6] del tempo e li aveva chiamati a dibattere sulla Relazione introduttiva al tema tenuta dal Presidente della Corte dei conti, prof. Giuseppe Cataldi[7].

E’ ,all’art.2 (Materia e contenuto del controllo sulla gestione) di tale disegno di legge che si riporta il “nuovo modo di fare controllo” della Corte dei conti, lasciando ad essa di definire di volta in volta a quale parametro fare ricorso nella sua attività istituzionale :< b) accertando ,anche sulla base delle pronunce adottate in sede di controllo preventivo, la legittimità e la regolarità di atti, operazioni, comportamenti, anche omissivi, e risultati relativi alle entrate e alle spese, nella loro globalità ovvero per singoli casi, materie o settori ,con riguardo agli obiettivi stabiliti dalle leggi e dai programmi ed ai principi di buon andamento della pubblica amministrazione, tenendo conto dei costi, dei modi e dei tempi dell’azione amministrativa>; libertà di analisi che verrebbe ad essere coartata da invocate prescrizioni di natura codicistica ,che, quindi, priverebbero la Corte del potere di autodeterminazione datale dal Legislatore.

Nel 1993, il testo normativo qui non a caso richiamato lo ritroviamo riprodotto all’art. 3, c. 4, della legge n. 20/94: “(La Corte dei conti) Accerta, anche in base all’esito di altri controlli (quelli degli OIV? n.d.a.), la rispondenza dei risultati dell’azione amministrativa agli obiettivi stabili dalla legge valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa. La Corte definisce annualmente i programmi e i criteri di riferimento del controllo”, e ancor prima nell’art. 65, c. 4, del d.lgs. .29/93: “Con apposite relazioni in corso d’anno (controllo concomitante, n.d.a), anche a richiesta del Parlamento, la Corte riferisce altresì in ordine a specifiche materie, settori e interventi.

In sostanza il prof. Sabino Cassese, allora, aveva saputo interpretare lo spirito di quel disegno di legge, lasciato in uno stato di abbandono, di dimenticanza per quasi dieci anni.

Oggi, a distanza di alcuni anni, si ritorna sul terreno che era stato arato, e che era stato riarato dalla legge n.15 del 2005 dal Ministro della funzione pubblica del tempo.

Il ritorno a una visione “sollecitatoria”, e per sua natura “di supporto” del controllo dei Magistrati della Corte dei conti ai processi decisionali delle burocrazie ,non certo ai singoli procedimenti amministrativi, si dimostra quanto mai utile se ci si rende conto della proficuità del controllo di esecuzione di una legge (a tutto favore dei cittadini) , che va declinata in piani e programmi, affiancati da cronoprogrammi capaci di misurare il grado di diligenza delle organizzazioni di volta in volta coinvolte nel perseguimento dei risultati.

Purtroppo, le dirigenze, soprattutto quelle tecniche, sembrano richiedere l’abbassamento dei livelli di guardia, consapevoli del fatto che non si è ancora dimostrato il ruolo che hanno svolto gli Organismi di valutazione in questi anni[8].

1.     Un fenomeno che assume dimensioni sempre più grandi e pervasive, la paura della firma. Ma quali sono le cause?

Capire quali sono le cause che determinano la insorgenza della sindrome della “paura di firmare” può essere utile per il Legislatore che deve legiferare, per la classe politica che dovrebbe preoccuparsi del valore della deterrenza che hanno le diverse responsabilità nei confronti di coloro che mostrano una propensione ad essere infedeli, per i dirigenti che sono tenuti a vigilare sulla correttezza del lavoro svolto dai loro collaboratori in quanto ad essi subordinati (gerarchia) e che dimentica di farlo per i più svariati motivi .

A tal riguardo non si può fare a meno di puntare l’attenzione sul fatto che il Legislatore, in primis, è stato sollecitato ad approvare le regole che presidiano il modo di agire delle burocrazie.

Un modo di agire che è stato sconvolto, per la prima volta nella storia delle istituzioni pubbliche nazionali, nel suo tran-tran quotidiano dalla entrata in vigore della legge n. 241, nel lontano 1990, dopo che nel 1972 ci si era impegnati a definire una” nuova figura” di dirigente con il d.P.R. n. 748.

Testo normativo, quest’ultimo, disatteso nella parte che si presentava avere più ampia portata innovativa, quella che prevedeva per i nuovi dirigenti un tempo di formazione, fondato sullo studio dei casi[9], di almeno un anno solare.

La legge n. 241, quindi, delineava un modo si agire, da parte di tutte le burocrazie (statali, regionali, provinciali, comunali), che avrebbe dovuto essere caratterizzato dal rispetto della legge (rectius, della legislazione di settore), dalla qualità dell’azione posta in essere (decisioni trasparenti e partecipate), dalla corretta ponderazione degli interessi in gioco da rendere ostensibile al Giudice amministrativo attraverso una esaustiva motivazione del provvedimento.

Nel 2005, con la riforma di quell’anno, il testo verrà modificato a tal punto che ci si preoccupa di disciplinare la forma dell’atto amministrativo piuttosto che costruire un sistema di garanzie a favore del cittadino inciso dal potere delle burocrazie, come avrebbe voluto il prof. Mario Nigro (1912-1989) nei suoi studi fatti[10] e che avevano a base l’analisi comparativa effettuata, in materia, con molti ordinamenti amministrativi del tempo.

A presidio e a conforto di tale “visione” del modo di agire delle burocrazie, il Legislatore non poteva non porre un “corpus normativo” che ne definisse il loro status.

Lo ha fatto nel 1957 con il d.P.R. n. 3 che recava (e reca ancora, nonostante il d.lgs. n. 265/2001) il c.d. “Statuto degli impiegati civili dello Stato”, fondando lo sviluppo delle carriere di tale personale sullo schema vigente per quello militare e, di conseguenza, fortemente gerarchizzato.

Lo ha fatto, come si è già accennato, nel 1972, a ridosso del poderoso trasferimento delle funzioni statali alle Regioni a statuto ordinario appena istituite, con il d.P.R. n. 748 che recava la normativa riguardante la «Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo».

Lo ha fatto nel 1993 con il d.lgs. n. 29 che ha riguardato la «Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego». Concepito come un corpus normativo dalle caratteristiche permanenti, esso ha subito decine di modificazioni e di integrazioni, fino ad arrivare all’anno 2001 assumendo un nuovo numero identificativo, il n. 165.

Un testo che, nella unica novità che è rimasta immodificata nel tempo, cioè quella di affidare al Giudice ordinario, a quello del lavoro in particolare, la valutazione delle controversie relative al rapporto di lavoro “privatizzato” dei dipendenti pubblici, si fondava sul falso presupposto che la risposta giudiziaria sarebbe stata più rapida di quella data, sino ad allora, dal Giudice amministrativo.

E sull’altro presupposto (altrettanto fuorviante) che la privatizzazione del rapporto di lavoro avrebbe fatto agire la dirigenza pubblica con gli stessi poteri del datore di lavoro privato; consentendosi di conseguire – facendo leva sul meccanismo della responsabilità disciplinare riveduta- così risultati incredibili nella accelerazione delle pratiche con conseguente soddisfazione dei cittadini.

Non sapremo mai – in assenza di studi e di ricerche sulla accoglienza (positiva, tiepida, negativa) data al principio della privatizzazione del rapporto di lavoro da parte dei dipendenti – quali sono stati i benefici che ne sono derivati ai cittadini.

E ciò al di là dell’evidente processo di burocratizzazione che subiscono i contatti tra P.A. e cittadino e che dà vita alla nascita degli Uffici per le Relazioni con il Pubblico (URP, in sigla) introdotti dall’art. 12 del d.lgs. n. 29/93 (ora, art. 11 del d.lgs. n. 165).

Strutture che avrebbero dovuto essere “al servizio del cittadino e dell’impresa”, ma che presto subiranno una disarticolazione in quell’altra struttura che viene ad assumere la denominazione di “Sportello unico per le attività produttive” (d.lgs. 31.3.1998, n. 112), o di “Sportello Unico per l’edilizia”, a voler rimarcare le differenze tra cittadini e sistema delle imprese.

Una nuova formula organizzatoria (separata dalla prima) che è risultata orientata a privilegiare coloro che sono stati da sempre interessati ad ottenere dalla P.A. risposte adeguate, tempestive, sostanzialmente favorevoli ai loro interessi.

Ciò è durato fino a quando il potere autorizzatorio delle burocrazie non è stato drasticamente ridotto, se non eliminato, sostituendosi ad esso un sistema di comunicazioni redatte sotto la responsabilità del cittadino/della impresa richiedente, lasciando alle burocrazie un controllo ex post, cioè a cose fatte.

Si può, quindi, ritenere che a fronte di un sistema di regole che ha sterilizzato i poteri delle burocrazie, il grado di responsabilità di queste ultime è scemato. Anzi, lo si è considerato rimosso dal Legislatore quando costui – per la sempre dichiarata sfiducia nei riguardi dell’operato delle burocrazie – si è dedicato in un certo periodo storico alla cura della politica delle semplificazioni dei procedimenti amministrativi, dopo aver dovuto constatare la situazione di totale fallimento di quella norma della legge n. 241/90 [11] che imponeva la determinazione del termine entro il quale si sarebbero dovuti portare a compimento i procedimenti stessi.

Ma, stante la lettera della legge, ci si interroga: a chi è utile la pubblicazione di termini disattesi quando l’inerzia operativa – nonostante le disposizioni del “Codice di comportamento” – non è rilevata dal dirigente responsabile e questi non si preoccupi di avviare alcuna azione disciplinare nei riguardi del dipendente responsabile?

A fronte di una sempre più ampia deprivazione di poteri autorizzatori che ha colpito le diverse burocrazie e di un ampliamento della possibilità di accesso diretto ad essa consentito da una crescente informatizzazione, sembra esser venuto meno lo spirito innovatore che aveva animato il teorizzatore della disciplina del procedimento.

Per completezza di visione delle innovazioni che hanno mortificato la professionalità delle burocrazie, c’è da osservare come il “controllo di gestione” – introdotto a supporto della funzione dirigenziale nel nostro ordinamento nel 1999, con il d.lgs. n. 286 (art. 4) – avrebbe dovuto essere lo strumento conoscitivo capace di fornire al cittadino informazioni puntuali sul grado di produttività individuale e collettiva di ogni apparato pubblico contribuendo alla visione manageriale (nuovo imprinting) alla quale sembrava essere votata la P.A. dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 29/93,con la fissazione di alcune regole proprie della disciplina della” economia del lavoro”.

Imprinting che per la Corte dei conti si era tradotto, nello stesso anno, con la serie di decreti-legge di riforma del controllo in una ulteriore specifica attività, in quel “controllo sulla gestione” (rientrante nella categoria assai ampia dei controlli successivi) disciplinato dall’art. 3, commi 4 e 8, della legge 14 gennaio 1994, n. 20: controllo che sarebbe dovuto sfociare nell’accertamento (che è sempre una forma di controllo…anzi, la più elementare ) dei “tempi, modi e costi dell’azione amministrativa”.

Il che aveva come presupposto che la vigilanza svolta dal management sui propri collaboratori si sarebbe dimostrata sufficiente in termini di una analisi comparativa ( anche nel tempo) di dati e di informazioni utili, e che il Magistrato istruttore, in quanto addetto al controllo, avrebbe ben potuto richiedere per lo svolgimento della verifica che tale controllo richiede come metodo di lavoro (costo per unità di prodotto/servizio, dato utile per una successiva corretta allocazione delle risorse finanziarie in bilancio).

È alla luce delle valutazioni svolte sul comportamento tenuto dalla Magistratura del controllo indipendente esterno, caratterizzato da una forte resistenza al cambiamento definito dalla legge n. 20, che si dovrebbero leggere le preoccupazioni nate, nel corso di un trentennio, nella mente e nel cuore delle burocrazie italiane.

D’altra parte, il fenomeno della “paura della firma”, che è una forma di” fuga dalle responsabilità”, non nasce oggi, ma alligna lentamente in burocrazie che risultano esposte a pressioni esterne.

Risultano più colpite, in definitiva, le burocrazie di due settori, quello dei lavori pubblici e quello della sanità. Gli unici settori che non sono stati toccati dalle c.d. “lenzuolate delle semplificazioni” (Governo Bersani) che hanno, invece, interessato le altre burocrazie, o, meglio, altri settori dell’Amministrazione.

Il fenomeno socio-culturale che si fa passare come il fenomeno chiamato “fuga dalle responsabilità” non è stato sufficientemente analizzato, né si è cercato di individuarne le cause principali e le concause che, a volte, diventano più rilevanti delle prime.

Se ciò non si è verificato, occorre individuare i perché, potendosi dare spiegazioni logiche, meditate nei riguardi di scelte (apparentemente) fatte dai decisori politici per fini di miglioramento delle Istituzioni pubbliche.

Tra queste ne vanno individuate alcune che si dimostrano assai ricorrenti nel tempo (ciclicità): 1. la sempre più accentuata carenza di risorse umane specificamente qualificate a ricoprire ruoli di natura tecnica, conseguente al blocco indiscriminato delle assunzioni e alla creazione di false aspettative di conferma in servizio in capo ai professionisti utilizzati “ab externo”; 2. l’anomala copertura di posti a più alto grado di responsabilità (c.d. “apicali”) con soggetti non in possesso di skills professionali indispensabili allo svolgimento del servizio, e tra questi la totale ignoranza di conoscenze in campo giuridico; 3. l’anomala gestione delle selezioni interne (con passaggi a categorie superiori di soggetti privi dei requisiti di legge)[12]; 4. la sopravvenuta complessità normativa nel settore degli appalti pubblici a seguito della entrata in vigore del “Nuovo codice” (anno 2016) cui si è aggiunta la copresenza di due organismi nel campo della interpretazione normativa (TAR-Consiglio di Stato/ANAC); 5. la riduzione progressiva ma, comunque, troppo lenta delle stazioni appaltanti e la resistenza a delegare la gestione del settore (per i benefici economici acquisibili dalle burocrazie tecniche e non) alle Province da parte dei piccoli Comuni; 6. la permanente confusione sulla interpretazione da dare alla legislazione di settore (appalti di opere pubbliche), recuperata dai diversi tink-tank istituzionali e rappresentata ai destinatari come delle novità ma che tali non sono, con conseguente creazione di uno “stato di ignoranza permanente” tra gli operatori della P.A., così da minare dalle fondamenta il principio della “certezza del diritto”.

A queste criticità di natura istituzionale, bisogna aggiungere l’accresciuta “presenza” sul territorio della Corte dei conti; presenza che è stata amplificata, attraverso i mass-media locali, dalla coesistenza dei due volti con cui essa viene rappresentata dalla classe giornalistica, attraverso la stampa, all’opinione pubblica:

1. come sollecitatrice del cambiamento non ancora pienamente attuato (apparato addetto al controllo, diventato prevalentemente finanziario dal 2013),

2. come organo di repressione di condotte illegali nei riguardi di amministratori e burocrati (apparato addetto alla ricerca delle responsabilità amministrativo-contabili).

Ma non sono solo queste le cause che hanno determinato, tra gli amministratori (classe politica che finisce per vedere sminuita la fides che gli elettori ripongono in essi) e le burocrazie (colpevoli di essere autoreferenziali sui temi della efficienza e sulla non adeguata soddisfazione per i servizi resi ai cittadini sempre), un clima di incertezza o, meglio, di instabilità emotiva [13].

Ve ne è una più grave e più profonda: quella determinata dalla volontà espressa, con la più evidente spudoratezza, dai Governi che si sono succeduti nel tempo alla guida del Paese, fin dalle pseudo-riforme “Bassanini”, che esse si sarebbero potute (e dovute) realizzare senza alcun onere aggiuntivo per le casse delle istituzioni pubbliche interessate.

Riforme che, se opportunamente valutate “ex ante” dalla Corte dei conti su richiesta delle competenti Commissioni parlamentari (dimostratesi per nulla interessate a tale tipo di analisi…), non si sarebbero potute neppure pensare e, quindi, men che mai attuare.

A tal riguardo, assume rilievo il decentramento della funzione del collocamento dallo Stato (Ministero del lavoro e della previdenza sociale) alle Regioni e alle Province; queste ultime videro raddoppiata la loro dotazione di personale dipendente… tra il 1997 e il 2000.

Questa volontà di cambiamento, fondata sulla carta, non è stata sottoposta ad alcun controllo di esecuzione da parte della Corte dei conti, tranne in alcuni, rari casi in cui si sono accertati le “dimensioni organizzative” degli apparati.

Essa ha, comunque, generato una sola convinzione tra gli operatori, cioè che si venivano a gravare di un carico eccessivo di lavoro (e quindi di responsabilità) le linee di gestione degli affari amministrativi e tecnici, poste front-line, senza che il datore di lavoro intendesse riconoscere il maggiore impegno profuso sul posto di lavoro e senza che ci si preoccupasse di una sua pur minima monetizzazione.

Tutto ciò si consumava in un contesto che veniva a contraddire la promessa fatta, tra il 1993 e il 1996-1998, dai teorizzatori della istituzione dell’ARAN, immaginata e voluta come quell’organismo (indipendente dalla “politica”) che sarebbe stato capace di far rispettare ai diversi Esecutivi i tempi di apertura e di chiusura delle vertenze sindacali (contrattazione collettiva nazionale di lavoro per tutti i comparti), garantendo la tempestività alla erogazione delle retribuzioni, in termini di aumenti salariali, nel settore del pubblico impiego ormai privatizzato, e come tale sottratto(solo apparentemente) al potere decisionale della classe politica (fino ad allora subordinato alla approvazione di leggine da parte del Parlamento o delle Assemblee regionali).

Il sopraggiunto tempo della crisi economica mondiale (dal 2007) – o, meglio, delle successive crisi, divenute ricorrenti – ha rotto il velo di questa giustificazione, rivelatasi falsa (dato che sono sempre i bilanci pubblici a dover prevedere la spesa per il personale dipendente), posta a base di una scelta politica che aveva inteso “privatizzare” il rapporto di lavoro del pubblico impiego (riconducendolo nell’alveo del diritto civile, e come tale fatta rientrare nella competenza dello Stato), in quanto tale scelta veniva a far parte di un disegno più ampio, quello della ricerca di impostare una vera “politica dei redditi” nazionale.

La prima tappa si era, comunque, realizzata nel 1984 con la famosa “Legge-quadro sul pubblico impiego”, richiesta a gran voce dal Centro studi (Cipolletta) di Confindustria e portata avanti, con grande determinazione, dall’allora Ministro del lavoro e della previdenza sociale, prof. Vincenzo Scotti.

Nel settore dei lavori pubblici, il tema della ricerca di spazi di esenzione dalla responsabilità amministrativa si colora anche delle incertezze interpretative generate dalla giurisprudenza amministrativa e della giurisprudenza civile, quando l’argomento trattato richiede l’intervento di entrambe (con evidenti situazioni di interferenze/duplicazioni di analisi valutative) (…).

La disciplina introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 21 del d.l. “semplificazioni” viene ad avere, a questo punto dell’analisi, un valore specifico in quanto, a causa delle oscillazioni interpretative, si finisce per essere responsabili di azioni/decisioni (azionabilità di poteri discrezionali) che forse non si sarebbero prese … se si fossero conosciute le conseguenze.

Sul punto è utile ricorrere al recupero di casi di “gestioni vissute”.

A tal riguardo c’è da richiamare un passaggio argomentativo contenuto in una recente sentenza del Consiglio di Stato, data in Adunanza plenaria (n. 21 del 29 novembre 2021), a riprova del fatto come anche la giurisprudenza formatasi nel campo dell’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture abbia dato adito a dubbi sul diritto al risarcimento del danno arrecato all’impresa per responsabilità precontrattuale accertata a carico del dipendente che abbia agito per l’Amministrazione.

Il Consiglio di Stato osserva come «questo settore dell’attività della P.A. è quello in cui tradizionalmente e più volte è stata riconosciuta la responsabilità di quest’ultima» in considerazione del fatto che, sebbene (tale attività, n.d.a.) sia svolta secondo i moduli autoritativi e impersonali dell’evidenza pubblica, l’attività contrattuale dell’amministrazione è nello stesso tempo inquadrabile nello schema delle trattative pre-negoziali da cui deriva quindi l’assoggettamento al generale dovere di comportarsi secondo buona fede enunciato dall’art. 1337 cod. civ. (come già chiarito dalla stessa Adunanza plenaria nelle pronunce del 5 settembre 2005, n. 6 e del maggio 2018, n. 5).

Si afferma, dunque, in punta di diritto come la tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale sia posta a presidio dell’interesse (esclusivo dell’impresa, n.d.a.) a non essere coinvolti in trattative inutili e, dunque, del più generale interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale, consentendosi la reintegrazione per equivalente in relazione all’interesse negativo, con il quale sono ristorate le spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 cod. civ. del danno emergente e del lucro cessante.

2.     La decisione normativa assunta dal Governo, nel maggio del 2021 e la migliore esecuzione possibile da garantire al PNRR.

L’intenzionale comportamento di chi (interno o esterno che sia alla P.A.) vuole arrecare un danno alla collettività che può essere più o meno ampia, fino a toccare l’interesse di una collettività sovranazionale (come lo è l’Europa con il suo bilancio e, quindi, i suoi cittadini) e, in maniera più specifica, all’Erario su cui può ben rivendicare il diritto comunista di proprietà, non può essere lasciato impunito.

E così avviene che – affidando ad una Magistratura speciale il compito di difenderne l’integrità – il nostro Ordinamento reagisca alla insorgenza delle due forme di “illecito amministrativo” che toccano, in maniera più o meno pervasiva, la P.A. in quanto violano nel profondo il principio del buon andamento[14]:

1.     l’illecito che trova le sue radici nell’illecito penale e che, in quanto tale, richiede nel soggetto un suo agire fondato sul dolo;

2.     l’illecito che si rinviene operante nell’altra grande famiglia, quella che ricomprende le fattispecie “da spreco”, e, in quanto tale, resta saldamente ancorata alla ricerca dell’elemento della “colpa” (che la legge n. 20 del 1994 ha circoscritto al grado della colpa grave, quel “grave” che il diritto romano denominava “lata” e, come tale, era considerata equiparabile al dolo) [15].

In sostanza, la reazione dello Stato alle conseguenze da riconnettere alle diverse fattispecie tipizzate, che vengono qualificate nel linguaggio comune come forme più o meno gravi di “corruzione”, risulta affidata alla Magistratura ordinaria, che si muove in quell’ambito dell’ordinamento che si preoccupa di presidiare il valore della onestà e della integrità in genere dei suoi agenti.

Invece, la reazione dello Stato alle diverse fattispecie che vengono qualificate condotte comunque riprovevoli in quanto impediscono o ritardano la realizzazione delle diverse politiche pubbliche così come vengono rappresentate nei documenti di bilancio, risulta affidata alla Magistratura contabile, a quella speciale della Corte dei conti.

È sempre lo Stato che, nell’intento di salvaguardare la buona condotta dei suoi agenti, che sono i suoi rappresentanti verso i cittadini e verso le imprese (al di là della privatizzazione del rapporto di lavoro), non lascia spazio a coloro che dimostrano di agire con un grado di moralità inaccettabile (dolo) o di bassa eticità (colpa grave).

A ben riflettere, la sola conoscenza della (potenziale) reazione dello Stato nei riguardi di chi utilizza denaro pubblico dovrebbe funzionare da “deterrente”, servirebbe – secondo una accreditata dottrina – a rendere più rispettoso della legge chi si trova a cadere in tentazione e risulti avere dimenticato di assolvere al proprio sistema dei doveri.

È stato, a tal riguardo, detto a proposito del potere esprimibile dalla Corte dei conti in ragione della sua specificità: «Più il danno (diverso da quello dell’immagine) si allontana dalla dimensione propriamente estimatoria (e, quindi, concreta), per dematerializzarsi ed eticizzarsi (se si preferisce, per moralizzarsi), più tendono a sfumare i contorni del soggetto passivo della lesione: da una amministrazione pubblica ben determinata alla “comunità amministrata” [16]; una interpretazione che trova il suo riferimento testuale nell’art. 1-bis della legge n. 20/1994»[17].

Sarebbe quanto mai utile ipotizzare – a questo punto della nostra analisi – che il Legislatore indicasse solo la “comunità amministrata” (o anche “le comunità amministrate”) come quel soggetto cui la Corte dei conti è tenuta soddisfare, con l’applicazione di una “sanzione”, la lesione morale arrecata… da comportamenti illeciti.

Con il ricorso a questo modello inter-relazionale si potrebbe giustificare la previsione secondo cui il Giudice contabile può fare ben ricorso alla clausola equitativa dell’art. 1226 cod. civ.; ricorrendo a questa, si avrebbe uno spazio nuovo per l’esercizio del c.d. “potere riduttivo”, auspicato dal Cavour nella dichiarata consapevolezza che ,in ragione della entità della retribuzione percepita da un dipendente pubblico (nel caso in cui fosse costui il soggetto da sanzionare), mai e poi mai questi sarebbe stato in grado di risarcire il danno nella entità calcolata secondo i canoni civilistici, cioè per intero, nei suoi diversi aspetti del danno emergente e del lucro cessante.

3.     I tentativi di reiterazione, nel 2023, di un sistema che affievolisce la diligenza del dipendente pubblico.

Per diversi lustri, nel campo della responsabilità amministrativo-contabile, la nozione di dolo ai fini dell’accertamento di esso per danno arrecato alla collettività è stata declinata diversamente a seconda che si ritenesse – tenuto conto di quali fossero i soggetti coinvolti nel giudizio e dei comportamenti tenuti – di aderire all’uno o all’altro degli indirizzi che la stessa giurisprudenza contabile aveva avuto modo di elaborare.

Tali due indirizzi sono rimasti invariati anche dopo l’entrata in vigore del “Codice di giustizia contabile” nel 2016.

Secondo il primo degli indirizzi elaborati, che risulta essere ispirato dalla nozione di dolo “in adimplendo” (art. 1225 cod. civ.), il c.d. “dolo contrattuale” è da intendere, quindi, «non come coscienza e volontà di provocare il danno[18] ma [quale] mera consapevolezza e volontarietà dell’inadempimento».

Una nozione questa che si fonda, quindi, sul presupposto che la responsabilità amministrativa abbia natura di responsabilità contrattuale, cioè che essa sarebbe caratterizzata dalla violazione di obblighi di servizio inerenti al rapporto che lega il funzionario pubblico con il suo datore di lavoro che è l’Ente per conto e nell’interesse del quale egli esprime la sua volontà[19], e al quale risulta essere legato da uno specifico rapporto di dipendenza gerarchica.

In sostanza, se è vero che «il dolo penale viene in rilievo come diretta e cosciente intenzione di nuocere, ossia di agire ingiustamente in danno di altri da parte di persona imputabile», […], altrettanto vero è che «il dolo contrattuale consiste [invece] nel proposito consapevole di non adempiere all’obbligo stesso, ossia di violare intenzionalmente i doveri riconducibili all’espletamento del rapporto di impiego, ovvero di servizio per quanto concerne i soggetti privati», a prescindere dalla volontà di provocare l’evento dannoso.

A voler seguire l’altro indirizzo interpretativo elaborato, il dolo viene riguardato come «la volontà di arrecare un nocumento contra ius all’amministrazione lato sensu intesa» […] così che «per la sussistenza del c.d. “dolo erariale” non basta la consapevole violazione degli obblighi di servizio ma serve la volontà di produrre l’evento dannoso»[20].

Sul problema della duplicità degli orientamenti in materia di dolo, comunque, sono intervenuti più volte i giudici della responsabilità amministrativa (Corte dei conti, Sez. I, centr. app., n. 401/2014). E, come è facile da immaginare, non si è potuta trovare una unicità di indirizzo … forse perché essa non ci può essere stanti le diverse situazioni contra legem da contrastare.

Né essa si è ritrovata dopo l’entrata in vigore del Codice di giustizia contabile, in quanto la prassi seguita dalle Procure regionali si è rivelata identica a quella seguita prima della sua entrata in vigore.

Procure che, invece di attivare tutti gli strumenti di indagine di cui sono risultate dotate, hanno preferito seguire quei procedimenti di natura penale a carico dei dipendenti pubblici attivati dalle Procure presso i Tribunali ordinari di ciascuna regione. Casi in cui la prova del dolo risultava comprovata dagli accertamenti effettuati dalla Polizia giudiziaria.

Fino a che è intervenuto, nel 2020, il Governo Draghi che nella relazione illustrativa al testo del d.d.l. Atto Senato 1883, a proposito del significato da dare alla novella contenuta nell’art. 21, comma 1, del decreto-legge n. 76, fornisce il seguente chiarimento: «il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece risulta da alcuni orientamenti dalla giurisprudenza contabile che hanno ritenuto raggiunta la prova del dolo inteso come dolo del singolo atto compiuto».

In un certo senso il dolo dovrebbe essere costruito come la proiezione di una condotta cosciente e volontaria (art. 42, c. 1, cod. pen.) verso un evento.

Si sono dovute registrare – già fin dal momento della presentazione del testo normativo in questione al Senato – reazioni contrastanti da parte della Magistratura contabile e, in particolare, da parte del “corpo specializzato” dei Pubblici Ministeri che hanno inteso il sopraggiunto dovere di sostenere l’accusa fornendo la prova di una volontà maleficamente orientata, in capo all’ “indagato”, a causare l’evento dannoso, come una esplicita intenzione del Governo di voler ridurre l’attenzione nei riguardi di chi arreca danno all’Erario, e di conseguenza di voler ridurre le loro capacità di intervento.

Una valutazione questa che è risultata alimentata dal modo come la novella è stata esposta all’opinione pubblica, esasperandosi la giustificazione, poco plausibile, posta a base della decisione, quella di voler neutralizzare l’esistenza del fenomeno diffuso della “paura della firma” che avrebbe interessato tutte le burocrazie, e in particolare quelle, tra esse, che si occupa(va)no della gestione degli appalti pubblici.

Una “paura della firma” che tocca, quindi, solo i dirigenti, e non certo gli amministratori pubblici per i quali continua a valere il principio di distinzione tra politica e amministrazione introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 3 del d.lgs. n. 29/1993.

Decisori politici che, in quel lontano periodo storico, contrassegnato dalla vicenda giudiziaria denominata “Mani pulite”, riuscirono ad evitare la chiamata a responsabilità da parte delle Procure presso le Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per i comportamenti costituenti violazione dei propri doveri d’ufficio per quel tipo di colpa addebitabile al buon padre di famiglia, cioè per colpa lieve.

Infatti, richiamarono l’attenzione del Ministro della Funzione Pubblica del Governo Ciampi, che era il prof. Sabino Cassese, sulla esistenza di una legge della Regione Siciliana risalente all’anno 1971[21], scrutinata favorevolmente dalla Corte Costituzionale due anni dopo (nel 1973, con la sent. n. 112, relatore Vezio Crisafulli) [22]. Essa aveva escluso la responsabilità amministrativa dei dipendenti della Regione Siciliana per fatti commessi da costoro la cui colpa fosse qualificata “lieve”.

In considerazione di ciò, tutte le forze politiche avanzarono la proposta che il testo del decreto-legge, opportunamente disarticolato in due provvedimenti (uno, un decreto legge da convertire in legge; l’altro un provvedimento proposto da alcuni parlamentari e immediatamente approvato negli stessi tempi del primo) contemplasse che di responsabilità amministrativa si rispondesse solo nei casi in cui fosse stata provata dalla Procura della Corte dei conti o il dolo o la colpa grave dell’autore del danno erariale.

Si accettava, anche se con grande rammarico [23], da parte della Magistratura del buon andamento, una riduzione della capacità di intervento in capo alle Procure regionali (che da lì a poco sarebbero state presenti sull’intero territorio nazionale) in quanto si riteneva che essa veniva ad essere compensata dall’esercizio del controllo indipendente esterno, che veniva ad assumere una maggiore presa sulle Amministrazioni e che, con il ricorso alla nuova tipologia del “controllo sulla gestione”, avrebbe dovuto “alimentare” – nelle recondite, e mai espresse chiaramente, intenzioni del Governo – l’attività delle Procure stesse.

Era l’anno 1994, ma gli storici di tale Istituzione consigliano di non dimenticare come, nel corso dell’intero 1993, le nuove disposizioni erano e sono rimaste vigenti a seguito della presentazione, reiterata dal Ministro Sabino Cassese per ben cinque volte, dello stesso testo presentato alle Camere sotto la forma del decreto-legge.

Provvedimenti legislativi che videro la luce ai primi di gennaio del 1994 – la legge n. 19 e la legge n. 20, entrambe pubblicate lo stesso giorno nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – e che costituiscono il risultato di un compromesso realizzato con il Governo Ciampi dalla classe politica del tempo che si dimostrò favorevole alla loro approvazione alle condizioni che essa stessa ritenne di dettare:

Anche allora le burocrazie, sia civili che militari, non poterono che apprezzare la decisione assunta dal Parlamento per avere condiviso i timori di “essere vittime” di una giustizia eccessivamente occhiuta.

Ma che, invece, intendeva continuare a tutelare – allora come ora – un interesse collettivo, quello di una società civile che aveva dovuto assistere impotente al saccheggio delle casse pubbliche in conseguenza di quella diffusa maladministration che aveva determinato l’abnorme crescita dei costi delle opere pubbliche o dei prezzi di acquisto di quei beni e servizi utili, se non necessari, al funzionamento ordinario degli apparati pubblici e, in particolare, di quello della sanità.

Sulla vicenda richiamata, che vide perdente nel 1994 la comunità nazionale in quanto il suo interesse a riacquistare quanto aveva formato oggetto di depredazione sistematica (con la connivenza dei partiti politici di allora) da parte di una minoranza al potere della società, era diventato per volontà del Parlamento “parzialmente adespota” (in quanto si era ridotto il potere di intervento dell’unico Giudice che tale interesse avrebbe dovuto far valere… o, comunque, difendere), fu chiamato ad esprimere il suo giudizio il Giudice delle leggi.

In quell’occasione il ragionamento svolto non ritenne di rintracciare in alcun modo alcuna delle ragioni etiche che avevano alimentato la elaborazione sia dell’art. 97 che dell’art. 28 della nostra Costituzione.

Ma si limitò ad affermare che «Nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, la limitazione della responsabilità amministrativa alla sola colpa grave risponde alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente» (Corte Cost. sent. n. 371/1998).

A rileggere questa valutazione oggi non si può che affermare la “interpretazione civilistica” del ragionamento al quale sono chiamati ad esercitarsi, oggi come allora, i giudici della responsabilità amministrativa.

Non si riesce a leggere alcun riferimento a una “visione penalistica” che dovrebbe guidare l’operato del P.M. contabile, anche perché vi sono reati che si consumano per comportamenti negativi riferibili alla colpa grave piuttosto che al dolo.

D’altra parte, la considerazione di natura valutativa fatta dal Giudice delle leggi sembra dire molto, ma dal punto di vista etico non sembra voler dire alcunché. Lo confermano le vicende di continue ruberie di denaro pubblico verificatesi dopo il 1994, in cui sono convissuti comportamenti dolosi e gravemente colposi, così da risultare smentita la valutazione stessa.

Tanto che alla fine dell’anno 2012, il Governo (anche questo “di salute pubblica”), sempre ricorrendo alla decretazione d’urgenza con il d.l. n. 174, si vide costretto a ripensare a una riforma dei controlli – limitandoli a quelli di natura finanziario-contabile – ma senza per questo minimamente contrastare la mala administration con interventi di sostanza, nella convinzione che fosse sufficiente il baluardo posto nel 1994, con la disciplina del richiamato art. 3, c. 8, della legge n. 20.

Il decreto-legge n. 174/2012 ha inteso ritornare, in effetti, su un terreno già battuto anche se a metà[24], costituendo una semplice esplicitazione degli stessi compiti già attribuiti alle Sezioni regionali di controllo qualche anno prima con la legge n. 131/2003 (art. 7, c.7, “… verificano, …, il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali di principio e di programma …”) e, per ciò che riguarda il controllo finanziario sui bilanci degli Enti locali, con la legge 23 dicembre 2005, n. 266.

Lo ha fatto ripensando anche al ruolo (ancora non pienamente svolto) di “controllore dei controllori” della Corte dei conti; un ruolo che già risultava pienamente definito – sia pur con il ricorso a una espressione ritenuta troppo sintetica e, come tale, soggetta a critiche, anche di natura demolitoria, da parte degli stessi Magistrati contabili – nella legge n. 20 del 1994, quando l’art. 1, comma 4, di essa così si esprime: «La Corte dei conti svolge, anche in corso di esercizio (ecco il controllo concomitante, n.d.a.), il controllo successivo […] sui fondi di provenienza comunitaria, […] verificando […] il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione».

Solo che, fino ad allora (cioè all’anno 2012), i Magistrati addetti al controllo, sia quelli operanti al centro che alla periferia della Corte dei conti, cioè presso le Sezioni regionali di controllo (la cui dotazione organica non aveva ricevuto alcun rafforzamento nonostante le reiterate denunce al Parlamento fatte dalla Associazione Nazionale Magistrati della stessa istituzione), non erano stati messi nelle condizioni di esprimere le capacità investigative assegnate ad essi dalla legge n. 20 per poter essere di ausilio nelle scelte di natura programmatoria che si articolano in interventi o azione amministrativa.

Risultava inattivato, in quanto inattivabile, infatti, il ricorso agli strumenti di analisi e di ricerca definiti, con grande chiarezza, dall’art. 3, comma 8, della legge n. 20 in questione e che, come tali, venivano ad equiparare le capacità investigative del Magistrato addetto al controllo a quelle del collega operante nell’Ufficio della Procura. Solo che le finalità del loro lavoro risultavano, “per tabulas”, diverse, anche se ambedue orientate a salvaguardare l’Erario (tutela di un interesse collettivo).

D’altra parte, a tali strumenti si sarebbe potuto ricorrere a una sola condizione, che si fosse approvato, in piena libertà decisionale o, anche, a richiesta delle competenti Commissioni parlamentari (che potevano essere anche quelle operanti presso i Consigli regionali se si fosse inteso dare esecuzione all’art. 7 della legge n. 131 del 2003), un programma di indagini, orientato sul territorio, che avesse individuato «materie, settori e interventi»[25] sui quali svolgere, tra l’altro, un intelligente controllo, in funzione ausiliaria dei diversi livelli di governo, sullo stato di esecuzione delle leggi e sull’impatto che esse avrebbero dovuto avere (nel pensiero dei decisori politici) sulla comunità civile.

C’è da chiedersi se lo stato di “inesperienza” venutasi a creare nel settore, che sembra qualificare l’attività della Corte dei conti (al di là della istituzione di una Sezione dedicata al controllo preventivo dei lavori secretati per ragioni di segretezza nazionale), si possa ancora protrarre.

O se, dimostrando il coraggio della ragione che non manca mai a chi deve porsi a difesa di interessi collettivi che rimarrebbero privi di tutela, diventando “adespoti”, non si possa ritenere intestata alla Corte dei conti una attività di controllo così diffusa da non richiedere il ricorso ad altre leggi-risacca, soprattutto sul versante della loro gestione; venendo in evidenza da sempre due aspetti sostanziali e che si coniugano perfettamente con l’aspirazione, più volte espressa, della società civile: quello di pervenire alla conoscenza dei tempi di realizzazione delle opere pubbliche, quello di volerne conoscere i costi effettivi.

Una esigenza questa che combacia con il disposto dell’art. 3, comma 8, (tempi, modi e costi) della legge n. 20/1994.

Anche perché la specifica competenza della Magistratura del buon andamento, quella di poter valutare le scelte fatte a monte raffrontandole con i risultati raggiunti nel campo delle opere pubbliche, contrassegnate, in Italia, dal fenomeno ben noto delle c.d. “opere incompiute” (soprattutto nel settore della sanità, non certo … in quello dei campi comunali da calcio) potrebbe essere legittimamente sollecitata dalla Corte dei conti europea.

Tuttavia, non si può trascurare quella attività investigativa nel settore dei lavori pubblici che è stata fatta, in questi ultimi anni, soprattutto alla periferia della Corte e dei cui risultati si è appropriato il “centro” (Sezioni Riunite in sede di controllo).

Infatti, nel referto predisposto dalla tale struttura in occasione dell’“Attività conoscitiva sulla applicazione del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016)” non si può fare a meno di notare una certa povertà di risultati nello svolgimento di quella attività di controllo successivo che avrebbe dovuto esercitarsi nel settore delicatissimo e a forte rischio di infiltrazioni malavitose dei lavori pubblici[26].

Molte delle criticità gestionali riportate sono riferibili – contro qualsiasi tipo di logica istituzionale – ad attività di controllo preventivo (che tocca i soli aspetti della legittimità di alcuni atti) e, quindi, limitate alla attività dei Ministeri che tradizionalmente se ne occupano, o a quella di enti pubblici di grandi dimensioni.

Si tratta di una carenza che potrebbe trovare immediata soluzione se considerata tale dai vertici della Istituzione superiore di controllo.

Anche in considerazione della meditata sottolineatura formulata dalla Sezione centrale del controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato (delib. 10 luglio 2018, n. 11/2018/G): «… gli appalti pubblici costituiscono l’attività più vulnerabile in fatto di sprechi, frodi e corruzione, a motivo della loro complessità, della dimensione dei flussi finanziari generati e della stretta interazione fra il settore pubblico e quello privato» (criticità rilevate anche dall’OCSE).

Criticità simili sono state rilevate in analoghi referti allegati a delibere approvate dalla stessa Sezione centrale[27] che hanno trattato prevalentemente le modalità di acquisizione di beni e servizi piuttosto che la gestione di opere pubbliche.

Comunque, per ciò che riguarda i tempi necessari alla realizzazione degli investimenti operati dalle Amministrazioni centrali, sono state evidenziate le seguenti cause: 1. I ritardi nella realizzazione delle infrastrutture sono stati ricondotti ai contenziosi relative alle gare bandite o alla lentezza nel rilascio dei permessi da parte degli enti proprietari delle aree interessate alla loro realizzazione (delib. n. 21/2016/G); 2. I ritardi per alcuni dei sedici interventi esaminati nel campo del recupero di beni culturali sono stati qualificati incompatibili con le esigenze di indifferibilità ed urgenza connesse con la decisione di ricorrere alla decretazione d’urgenza che li ha finanziati (delib. n. 5/2017/G).

La complessità della disciplina contenuta nel “Codice dei contratti pubblici” (2016) è stata considerata essere da un’altra delle Sezioni centrali del controllo – la Sezione delle Autonomie – tra le probabili cause dello scarso dinamismo della spesa per investimenti, tradizionalmente associata – nel contesto del sistema delle Regioni-Enti Locali – al concorrente effetto di “rallentamento” prodotto dai vincoli di finanza pubblica.

Rarefatta – come si è già avuto modo di notare – si rivela l’attività delle strutture periferiche addette al controllo nel settore dei lavori pubblici – le Sezioni regionali –, anche perché, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 174/2012, la loro attività – in termini di risorse umane dedicate – risulta assorbita interamente dal controllo di legittimità-regolarità da svolgere sui bilanci delle Regioni e degli Enti Locali, tanto da non poter riscontrare, dalla lettura dei programmi annuali, alcuna attenzione ai controlli che hanno per obiettivo l’accertamento dei tempi, dei modi e dei costi dell’azione amministrativa (Sez. reg. Liguria, delib. n. 91/2016/GEST; Sez. reg. Lombardia, delib. da n. 239 a n. 246/2017/FRG e da n. 120 a n. 126/2018/FRG), di quella riguardante tale settore.

In alcune di tali deliberazioni si è evidenziato come possa insorgere il timore di agire in capo alle dirigenze quando l’esercizio del potere discrezionale può causare il ricorso, da parte delle imprese, al Giudice amministrativo ed essere cosi causa della insorgenza di responsabilità. Tutto ciò avrebbe condotto alla mancata verifica dell’anomalia della offerta nei casi in cui essa risultava legata a motivi di opportunità.

Con riguardo alla fase esecutiva dei contratti, diversi sono stati i rilievi mossi a motivo delle carenze motivazionali rilevate nella approvazione delle varianti; queste ultime trovano, ad esempio, una loro giustificazione nell’eccessivo lasso di tempo intercorrente tra l’approvazione del progetto, l’indizione della gara e l’esecuzione fornita dall’impresa al contratto stipulato (venendosi a verificare, in tal caso, un mutamento sostanziale del quadro fattuale oltre che normativo).

Naturalmente, le difficoltà riscontrate in fase esecutiva hanno visto crescere – e in diversi casi in modo assai rilevante – l’importo complessivo del contratto e i relativi tempi di conclusione dello stesso.

Da parte del controllore indipendente esterno, nei casi riscontrati, non ci può che essere una semplice presa d’atto in considerazione del fatto che il controllo si svolge a distanza di tempo dalla conclusione dei lavori. Ma risulta impossibile alla Magistratura contabile poter esprimere il suo potenziale, cioè quello di segnalare a tempo, in funzione di organo ausiliare, alle burocrazie eventuali errori o discrasie che esse stesse avrebbero potuto correggere. Cosa che si sarebbe potuto, in verità’, realizzare se il controllo si fosse dispiegato in modo concomitante.

La Corte dei conti, comunque, ha inteso fornire, nelle “Conclusioni” di tale referto, una serie di riflessioni critiche di carattere generale, integrate da alcune di natura più puntuale.

Tra quelle di carattere generale meritano di essere segnalate le seguenti: 1. l’indifferibilità di un programma nazionale di rafforzamento, di professionalizzazione e di specializzazione delle risorse umane a competenza tecnica che operano nel settore degli appalti dei lavori pubblici in particolare; 2. la necessità di procedere alla aggregazione delle stazioni appaltanti (attualmente sono poco più di 32.000), potendosi – per tale via – così risolvere la difficile situazione in cui versano i piccoli comuni.

In ordine a quest’ultima osservazione mette conto rilevare come ad essa si sarebbe potuto porre rimedio, e anche da tempo, ricorrendo all’art. 19 del T.U.E.L., articolo che attribuisce, al comma 1, lett. l), all’Ente Provincia di svolgere assistenza tecnica-amministrativa a quanti, tra i Comuni del territorio, abbiano avanzato richiesta in quel clima di leale collaborazione che dovrebbe sussistere tra i diversi livelli di governo.

Si tratta di un suggerimento di natura organizzativa che si inscrive nel novero delle misure che il Governo attuale sta cercando di individuare e che, in parte, si rivelano come risposta alle criticità rilevate dalla Corte dei conti in questi ultimi anni.

Riguardo alla prima osservazione richiamata, inoltre, sarebbe consigliabile che la “Scuola di alta formazione”[28], intitolata al Presidente Francesco Staderini, della Corte dei conti, istituita con delibera n. 20/2020 del Consiglio di Presidenza, aprisse le sue porte al mondo esterno proponendo l’attivazione di corsi di aggiornamento nel settore degli appalti pubblici, recuperando alla Istituzione superiore di controllo lo svolgimento di una attività che diventa essenziale, quella del “controllo di qualità” delle opere pubbliche, così come richiesto espressamente dalla c.d. “Dichiarazione di Lima”, fin dal lontano 1977[29].

Controllo di qualità che non può realizzarsi se non mutano radicalmente le metodologie di attivazione del “controllo sulla gestione”, che da cartolare (e svolto a distanza di tempo dalla data di chiusura del cantiere) deve essere in modalità “concomitante”, svolgersi, in sostanza, come un vero e proprio monitoraggio delle decisioni assunte/assumibili dai diversi soggetti della individuata “catena delle responsabilità” che viene prevista, in termini organizzativi, dal nuovo “Codice dei contratti pubblici”.

Per potersi tale controllo svolgere in concomitanza, cioè parallelamente all’attività amministrativa-tecnica che risulta iscritta nel “tableau de bord”, nel caso della esecuzione di un’opera pubblica, del direttore dei lavori (che altri non è che il responsabile unico del procedimento tecnico assegnatogli), occorre che il Magistrato istruttore – assegnatario della indagine programmata – attivi, sul territorio, tutti quegli strumenti di indagine/conoscenza/valutazione messigli a disposizione dalla normativa vigente:

1.     avvalimento del Corpo della Guardia di Finanza (o di altre Forze di polizia, a norma dell’art. 56 del Codice di giustizia contabile) delegata ad effettuare indagini di natura istruttoria, in esecuzione del relativo protocollo d’intesa stipulato a suo tempo e che richiede di essere alleggerito, ora, dai pesanti orpelli burocratici di cui è stato caricato nella suddetta versione);

2.     effettuazione di accertamenti diretti (come audizioni, o sopralluoghi, visite ispettive, confronti tra esperti di settore/ tecnici);

3.     nomina di consulenti particolarmente esperti nella valutazione della tipologia di opere in costruzione (come lo è l’analisi dei materiali usati) da rintracciare nel contesto delle migliori imprese /studi di ingegneria operanti nel campo;

4.     nomina di personale del settore pubblico (Genio civile, Genio militare) con il compito di relazionare sullo stato dei lavori … corrispondendo ad essi il giusto compenso per la “consulenza” svolta nell’esclusivo interesse del Popolo italiano (previa istituzione di un capitolo di spesa nel bilancio della Corte dei conti).

Ad oggi, non sembra che tale complesso di attività sia stato reso possibile (anche perché non è dato conoscere di richieste avanzate al Ministero dell’Interno ai sensi del citato art. 7, c. 7, ult. frase, dove si richiamano studi fatti o da fare; anche se vi sono da segnalare casi in cui si registra la intelligenza di recuperare il tempo perduto.

E, tra le misure da assumere ci sarebbe quella di istituire, nel contesto del bilancio della Corte dei conti, un capitolo di spesa dedicato alla remunerazione dei consulenti, che potrebbero essere nominati dai Magistrati istruttori d’intesa con il Presidente della Sezione presso cui si svolge quel certo controllo. Si tratta di una decisione non più procrastinabile se si ha a cuore quell’accertamento di economicità dell’azione amministrativa voluta dal Presidente del Consiglio, Ciampi, con la riforma del 1994.

Controllo che deve poter far capire ai decisori politici (Parlamento nazionale, Consigli regionali, Consigli provinciali, Consigli comunali…) quali sono i tempi giusti di realizzazione di un’opera (sia che si tratti di una strada, o di un ospedale, o di un edificio scolastico), quale sia stato l’importo dell’appalto destinato a remunerare il fattore lavoro e quale quello destinato a remunerare le capacità organizzative dell’imprenditore (il c.d. “just profit”), quali siano stati i materiali usati e il relativo costo… [30].

4.     La presa di posizione della Corte di conti sarà tenuta in considerazione?

Nel pacchetto di riforme che, di recente, ha interessato la P.A., che dovrebbe conseguire due obiettivi altrettanto importanti, quello della semplificazione burocratica e quello della riduzione dei costi e dei tempi attualmente gravanti sulle imprese e sui cittadini, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede, con riferimento al settore dei contratti pubblici, anche la proroga, fino al 2023, delle disposizioni già contenute nell’art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120).

Disposizioni che sarebbero orientate alla «limitazione della responsabilità per danno erariale ai casi in cui la produzione del danno è dolosamente voluta dal soggetto che ha agito, ad esclusione dei danni cagionati da omissione o inerzia».

Infatti, è in sede di conversione del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, ad opera della legge 29 luglio 2021, n. 108, recante disposizioni relative alla “Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”, che le parole «31 dicembre 2021» del decreto-legge sono sostituite dalle parole «30 giugno 2023» (art. 51, comma 2, lett. h).

Già ancor prima che il testo elaborato dal Governo risultasse oggetto di dibattito in sede parlamentare, le preoccupazioni sulla insorgenza di qualcosa che sarebbe stato visto come destinato a ridurre la difesa dell’Erario, sia pure limitatamente ad alcuni settori e, in particolare, al settore dei lavori pubblici, furono esternate tutte anche perché su di esso si era appuntata l’attenzione della stampa quotidiana.

Il testo normativo elaborato si prestava facilmente a una lettura riduzionista della funzione essenziale del Pubblico Ministero presso la Corte dei conti, per due ordini di ragioni:

1. in quanto avrebbe condizionato per sempre il suo modo di utilizzare il suo potere, cioè di dovere riguardare il dolo contabile alla stessa stregua del dolo penale;

2. in quanto limitava la responsabilità di chi risultava chiamato a prestare la sua attività lavorativa, specialmente in uno specifico settore “a rischio” – quello dei lavori pubblici – alla responsabilità per dolo e, parimenti, escludendola in caso di colpa grave, non riferibile, però, a stati di omissione/inerzia, ma solo per un lasso di tempo predefinito (dal 2021 al 2023, in ragione del fatto che si sarebbe stati impegnati[31] a portare a termine un gran numero di progetti finanziati con risorse dell’Unione europea e, pertanto, dovendosi sopportare da parte delle burocrazie un sovraccarico di lavoro fuori dal comune).

Tralasciando la considerazione tutta dogmatica secondo la quale – fin dal diritto romano – la colpa grave è stata da sempre equiparata al dolo, ci sono stati giuristi di chiara fama che hanno interpretato la novella apportata all’art. 1 della legge n. 20/94 come un tentativo di omologare l’attività del Pubblico Ministero presso la Corte dei conti a quella dello stesso Organo del settore penale (UUUU), venendosi a disconoscere per tale via la peculiarità che si era inteso assegnare alla responsabilità contabile.

Si era affermato, infatti, con grande acutezza di ragionamenti elaborati a monte che essa era da considerarsi “una responsabilità sui generis” (39) e, come tale “in nessun modo ritagliabile a perfezione sull’una (responsabilità aquiliana) o sull’altra (responsabilità contrattuale), modello teorico astratto ma quasi copia di un “tertium genus” connotati da fondamenti ed elementi di oggettiva peculiarità”.

Allo stato, comunque, si può condividere la tesi secondo cui la novella in questione non si possa qualificare tale[32], dato che nella relazione governativa si è dato atto della esistenza di un preesistente orientamento giurisprudenziale e, quindi, si è solo espressa la preferenza da parte del Legislatore per una interpretazione che faceva già parte della dottrina giuscontabilistica[33].

In definitiva, la norma, così come è stata elaborata, si limita a riecheggiare l’art. 43 del codice penale che prevede l’espressa volontà dell’evento dannoso o pericoloso.

La giurisprudenza penale, a tal riguardo, ha ampiamente condiviso il fatto che nella volontà dell’evento dannoso rientri anche l’accettazione del rischio di provocare l’evento in quanto da considerare risultato di una condotta consapevole, volutamente continuandosi a volere distinguere, in tale area, tra diverse figure di dolo, cioè tra dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale.

A quest’ultima figura – quella del dolo eventuale – si è riferita, in molti casi, la posizione della Procura della Corte dei conti per richiedere la condanna al risarcimento del danno causato. E, così, continuerà a fare.

Il fatto che si sia inteso, nella stessa legge, limitare la responsabilità amministrativa al dolo[34], avrebbe potuto generare tale scelta la tentazione di impugnare la disposizione dinanzi alla Corte Costituzionale.

Anche se nessuna limitazione può porsi a che si reagisca, in futuro, da parte del plesso giudiziario della Corte dei conti, si è avuto modo di apprezzare le considerazioni svolte da alcuni dei rappresentanti più autorevoli[35].

Indubbiamente, potrebbe giocare a favore di una dichiarazione di presunta riduzione del campo della giurisdizione contabile l’affermazione abbastanza apodittica rilasciata dalla Corte Costituzionale in occasione di un precedente considerato storico, la sottoposizione alla sua valutazione della eliminazione, con la legge n. 20 del 1994, della responsabilità conseguente ad azioni/omissioni causate da comportamenti che violavano la diligenza propria del buon padre di famiglia (colpa lieve).

Infatti, si era accettata – sia dalla dottrina che dalla Magistratura contabile – come eticamente ragionevole la tesi secondo cui “l’individuazione del limite minimo di imputazione della responsabilità nella colpa grave costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico con impossibilità di un’ulteriore attenuazione” (Corte Cost. 20 novembre 1998, n. 371; Corte Cost. 24 ottobre 2001, n. 340).

Il fatto che l’esonero dalla responsabilità amministrativa per “colpa grave” (che può configurarsi come un “vulnus” al nostro ordinamento e a quello comunitario dato che la Corte dei conti europea ha una sua autonoma capacità di intervento anche su semplice segnalazione di un qualsiasi cittadino europeo) sia stato temporalmente circoscritto (al 2023) e collegato alla straordinarietà di azioni connesse a un obbligo di facere (spendita di risorse finanziarie di provenienza comunitaria), e che tale responsabilità sia individuata e perseguita se l’illecito erariale sia ascrivibile ad atteggiamenti di inerzia o ad omissione (c.d. dolo omissivo), fa ritenere che non ci siano spazi sufficienti per ritenere tale nuova disciplina contraria ad alcuni principi (art. 28 e 97) della Carta costituzionale [36].

In effetti, vi è da ritenere il Legislatore si sia trovato di fronte a una valutazione di interessi contrapposti e che il bilanciamento tra essi (rilancio dello sviluppo economico vs. esclusione/riduzione temporanea della ricerca del danno derivante da responsabilità per colpa grave) abbia fatto propendere per l’accettazione di un rischio che, alla fin fine, si potrebbe considerare ben ponderato sotto il profilo della logica e della ragionevolezza.

Bisogna riconoscere il fatto che le norme sono state elaborate da quelle “menti raffinatissime” che seguono le riflessioni esposte in sede di convegni e di tavole rotonde che esse stesse promuovono. In definitiva, da menti che sanno come funzionano (e hanno da sempre funzionato) le Procure regionali presso le Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti[37].

Si è, infatti, ben evidenziato, da parte di autorevoli rappresentanti della Magistratura contabile, anche in occasione delle cerimonie regionali di inaugurazione dei diversi anni giudiziari successivi al 2016, come «il processo di responsabilità amministrativo-contabile era e resta un processo eminentemente cartolare, destinato a svolgersi e ad esaurirsi in un’unica udienza di discussione e sulla base dei soli documenti prodotti dalle parti».

Ad effettuare una analisi di quella che è stata la “produzione” delle Procure contabili, la conclusione sembra essere come si evidenzi questo fatto, che esse hanno inteso privilegiare la contestazione di fattispecie dolose, preferendo, in definitiva, “quelle a carattere seriale e con contaminazioni penalistiche”.

Questo atteggiamento si può considerare il portato di una convinzione (mai esplicitata, ma sottintesa) che si era fatta largo tra alcuni Magistrati, quella secondo la quale – in assenza di una presa di posizione netta non rinvenibile del nuovo Codice di giustizia contabile – l’auspicato mutamento nella gestione della ricerca del danno si sarebbe potuto realizzare solo se si fosse verificato un cambiamento radicale ai vertici di tali Uffici.

Certo è che l’autonomia del processo e, di conseguenza, del giudizio contabile rivendicata, nel 2016, rispetto a quello penale risulta, ancora una volta (2021), recuperata dalla discussione dottrinale ma in un contesto temporale che appare inappropriato: quello in cui il vero problema è dato dal dover assumere come Nazione l’impegno di portare a buon compimento – nel rispetto dei tempi programmati e della qualità definita – le opere che l’Unione europea ha finanziato.

Conclusivamente, a ben riflettere sul modo come il Legislatore ha voluto ripensare a un ruolo proattivo del Pubblico Ministero presso le Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, non sembra che si siano introdotte novità sostanziali: si è voluto solo fornire maggior valore a quella tesi che si era espressa per una “visione penalistica del dolo”.

Che questa tesi porti a una difesa maggiore, rectius “sostanziale”, dell’Erario, della sua integrità, è ancora tutta da dimostrare[38].

Tuttavia, si potrebbe pervenire a una conclusione opposta, cioè si potrebbe riavviare quel certo discorso, mai sopito, secondo cui la c.d. pena (in denaro) inflitta dal giudice contabile – in considerazione del tipo di giudizio instaurato – potrebbe venire ad assumere una differenziazione – quella di essere configurata come una “sanzione” – rispetto alla ripetuta affermazione che si debba ricercare, invece, da parte dell’apparato della Magistratura della Corte dei conti, un certo ristoro per danni di ispirazione civilistica (e che, comunque, si mantiene tutto se l’Amministrazione lesa, in sede penale, faccia la scelta di costituirsi parte civile nel giudizio penale).

Un discorso che presenta ancora una sua validità, ma che deve fare i conti (si fa per dire…) con lo specifico modo di interpretare il ruolo del controllo sulle finanze europee da parte della Corte dei conti europea, ai cui componenti risulta del tutto estranea qualsiasi interpretazione secondo cui tale funzione possa assumere connotati di natura collaborativa.

Questo aspetto non può non essere sottolineato nell’economia di questo saggio.

Infatti, è stato correttamente osservato come «Per l’attuazione del PNRR […] sono certamente strategici il capitale umano […] ma anche il controllo: capitale umano e controllo saranno i punti di forza o i punti di debolezza che condizioneranno il raggiungimento dei risultati.

La responsabilità per l’attuazione delle missioni, da parte dello Stato italiano nei confronti della Commissione europea, è una responsabilità di risultato.

Per il capitale umano, sono stati previsti canali di rafforzamento della capacità amministrativa (mediante assunzione di personale a tempo determinato ovvero con la possibilità di avvalersi di esperti selezionati con certe modalità). Va da sé che, prima che arrivino nuove risorse umane, sarà bene intervenire sull’esistente con misure di razionalizzazione e di formazione mirata.

Particolare enfasi è posta al sistema di controllo e alle relative modalità dal regolamento n. 241/2021, istitutivo del dispositivo di ripresa e resilienza … che rappresenta il cuore del Next Generation EU, sia nella fase programmatica e di approvazione dei piani, sia in quella successiva attuativa…

Al riguardo due disposizioni sono recentemente intervenute.

L’art. 22 del d. l. n.76/2020 (convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120) richiama il controllo concomitante di cui all’art.11 della l. n. 15/2009, in sostanziale continuità di approccio con la normativa previgente, al dichiarato intento di accelerare gli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale (in vigore dal 17 luglio 2020)[39].

Più recentemente è intervenuto l’art. 7, c. 7, del d.l. n. 77/2021. La Corte dei conti esercita il controllo sulla gestione di cui all’art. 3, c.4, l. 14 gennaio 1994, n. 20, svolgendo in particolare valutazioni di economicità, efficienza ed efficacia circa l’acquisizione e l’impiego delle risorse finanziarie provenienti dai fondi di cui al Pnrr.

Tale controllo si conforma a criteri di cooperazione e di coordinamento con la Corte dei conti europea, secondo quanto previsto dall’art. 287, par. 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.» [40].

È con il richiamo a tale normativa, e, in particolare, all’art. 22, c. 1, dello Statuto dei funzionari dell’Unione (secondo cui il funzionario può essere tenuto a risarcire, in tutto o in parte il danno subito dall’Unione per colpa personale grave) che si esplicita in maniera inequivocabile il punto di vista dell’Unione (art. 8, reg. n. 241/2021, che rinvia al reg. finanziario Ue).

Gli Stati membri, in sostanza, non sono destinatari passivi dei fondi, ma devono assolvere a un obbligo fondamentale, quello di adottare «tutte le opportune misure per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione e per garantire che l’utilizzo dei fondi … sia conforme al diritto dell’Unione e nazionale applicabile, in particolare per quanto riguarda la prevenzione, l’individuazione e la rettifica delle frodi, dei casi di corruzione e dei conflitti di interessi…».

Come è stato giustamente osservato, «… l’Europa, in estrema sintesi, ci fornisce i mezzi finanziari per la ripresa, ma esige … una sana gestione finanziaria ed efficaci azioni di contrasto, non solo di carattere penale ma anche recuperatorie…» [41].

Ma non è solo sulla attività recuperatorie che si può fare affidamento, occorre dimostrare che si è capaci di intercettare le anomalie e le disfunzioni prima che esse si consolidino.

In tale direzione devono muoversi le migliori intelligenze del Paese, associando alla vigilanza dei cittadini il controllo in corso di esercizio, da parte della Corte dei conti, avendo già la riforma del 1994 sollecitato i suoi Magistrati addetti al controllo a dimostrare maggiore attenzione agli eventi piuttosto che ai documenti.

In tal senso si è orientato il management della Corte dei conti, sottolineando la necessità di riprendere la strada della assunzione piena delle responsabilità così come intestate in capo alle burocrazie. Tanto che la Presidenza della Corte dei conti ha voluto porre un freno al fatto che si venivano profilando ulteriormente comportamenti lassisti del Parlamento.

Significative le osservazioni svolte, nel suo intervento in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario per il 2023, dal più alto Rappresentante della Corte (Guido Carlino): “… Non bisogna limitare la responsabilità per danno erariale perché un suo “indebolimento” potrebbe creare “situazioni propizie la dispersione delle risorse pubbliche, specialmente di quelle legate al PNRR, così determinando un clima favorevole per l’infiltrazione della criminalità organizzata”.


*        Federica Scalia è avvocato iscritto all’Ordine di Roma. Esperta in materia di organizzazione sanitaria e di storia delle Istituzioni, si occupa dei temi della responsabilità amministrativa degli operatori pubblici. Il saggio costituisce rielaborazione dell’intervento tenuto nella Giornata di studio promossa dall’Istituto Max Weber il 12 gennaio 2023, a Roma, dal titolo “Evoluzione della responsabilità amministrativa nel contesto della gestione del PNRR”.

[1] V. D. Tota, Il Pubblico ministero presso la Corte dei conti organizzazione e funzioni alla luce del codice di giustizia contabile, in Riv. Corte dei conti, n. 1/2021, pag. 47, nota 4.

[2] Sul punto, v. Rosario Scalia, Il ruolo della Corte dei conti nell’ordinamento costituzionale italiano, in Rivista della Guardia di Finanza, n. 6/2022, pagg. 1553 -1592.

[3] Cfr. le considerazioni svolte dal Presidente della Sezione regionale di controllo della Regione Sardegna per il 2023 in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario: “Vorrei, inoltre, sottolineare come, recentemente, alle già numerose competenze della Sezione, si siano aggiunti ulteriori ed impegnativi compiti. In particolare, l’art. 22 del dl n. 76/2020 ha introdotto il controllo concomitante sugli atti di attuazione del PNRR. Infatti ,tale controllo può essere effettuato dalla Sezione regionale in raccordo con il Collegio del controllo concomitante, laddove l’iniziativa sia finanziata con fondi statali, ma attuata nel territorio regionale. Infatti, l’art. 7,comma 7, del dl. n. 77/2021 ha introdotto un forma di controllo sulla gestione degli stessi atti del PNRR, ossia – come si esprime il dettato normativo – mediante valutazioni di economicità, efficienza ed efficacia circa l’acquisizione e l’impiego dei fondi del PNRR…Si tratta di nuove funzioni che, in parte, sono state avviate nel corso dell’anno appena trascorso….”.

[4] Si richiama all’attenzione degli studiosi della contabilità pubblica nel nostro Paese la sfilza di ricorsi presentati dalle Regioni alla Corte Costituzionale. Se ne contano quasi 22…

[5] Forte era la preoccupazione, all’epoca di “Mani pulite” tra le fila degli Amministratori locali e i rappresentanti politici delle Regioni che la Corte dei conti, nel fare controllo, utilizzasse il set di strumenti di indagine offerti dal Legislatore.

[6] Tra costoro risultano presenti Guccione, Caianiello, Costanza, Cappiello, Polifroni.

[7]        La finalità del controllo di tale Istituzione superiore sembra essere stata definita quando egli afferma “Sembra che la stessa indicazione dei parametri se si riuscissero a formalizzare questi comandamenti di buona amministrazione dell’art. 2, per indicare il contenuto del controllo sulla gestione, i criteri indicati dalla stessa Corte dei conti e lo sviluppo del contenuto dell’art,97 nel requisito della efficienza ,non rendano difficile una elaborazione di principi generaliCerto è che, essi costituirebbero un progresso per la gestione pubblica e renderebbero sostanziale l’apporto della Corte dei conti rispetto al controllo del Parlamento”.

[8] Cfr. R. Ruffini, Performance e buona amministrazione: il ruolo dei nuclei di valutazione, in Il controllo indipendente esterno. Diversi oggetti, diversi sistemi di valutazione, Atti del Convegno di Potenza, 15 aprile 2020, Bonanno ed, Acireale-Roma, pagg. 217-236.

[9]        Lo “studio di un caso” consiste nella descrizione dettagliata di una situazione reale, comune e frequente. Nelle aule dell’ENA francese costituisce la metodologia di formazione del management di gran lunga prevalente (c.d. “addestramento alle decisioni”). V., ex multis, Luisa D’Alterio, “Diritto amministrativo. Analisi di casi e profili tecnici”, Ed. Wolters Kluver, 2021.

[10]       V. Mario Nigro, “Giustizia amministrativa”, ed. Il Mulino, Bologna, 19964, 404.

[11]       L’art. 2, c. 4-bis, della legge n. 241/90 prevede che «le pubbliche amministrazioni misurino e pubblichino nel proprio sito istituzionale, nella sezione “Amministrazione trasparente”, i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti di maggiore impatto per i cittadini e le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente…». Un precetto normativo sistematicamente disatteso e non richiamato in alcun “Codice di comportamento” elaborato dalle pubbliche istituzioni in Italia.

[12]       A conferma di tale situazione, Francesco Verbaro, “La quarta area non può essere un nuovo promovificio”, in Il Sole-24 Ore, 2 dic. 2021. Tale quarta area è stata prevista dal d.l. n. 80/2021.

[13]       In tal senso le interessanti considerazioni di Marco Villani, “La misurazione del rendimento nelle pubbliche istituzioni…”, in “Il controllo indipendente esterno. Diversi oggetti, diversi sistemi di valutazione” (a cura di R. Scalia), Bonanno ed., Acireale, 2020, pag. 237 e ss..

[14]       Il principio del buon andamento pervade anche l’area della contabilità pubblica (declinandosi come sana gestione finanziaria) e tocca anche i momenti della elaborazione e dell’approvazione dei documenti di bilancio.

[15]       Queste le differenze, in sintesi, tra la colpa “in campo civile”(delitto civile) e la colpa “in campo penale”: a) una infrazione al divieto di danneggiare gli altri non costituisce delitto penale se non è prevista dalla legge penale… Al contrario, qualsiasi fatto reca danno ad altri, commesso con colpa, costituisce delitto civile; b) il delitto penale è punibile nell’interesse sociale (…); quello civile dà soltanto luogo ad azione civile nell’interesse privato; c) la sanzione dei due delitti è diversa. Il delitto penale espone il colpevole a una pena e al risarcimento dei danni, se ve ne sono stati ;quello civile soltanto nella reintegrazione del patrimonio; d) nel delitto penale può mancare il delitto civile, nel senso che non posso esservi danni, come il tentativo del delitto; nel delitto civile il danno è sempre necessario per la sua sussistenza; anzi, si può dire che esso non crei che un rapporto fra due patrimoni, quello del colpevole e quello del danneggiato [dalla voce “Colpa”, a cura di M. D’Amelio – A Del Giudice, in Enciclopedia Italiana (1931)].

[16]       V. Massimiliano Atelli e al., “Il dolo contabile dopo l’art. 21 del decreto-legge semplificazioni tra contraddizioni e incoerenze del sistema”, in Rivista Corte dei conti, n. 6/2020, 28-45.

[17]       «Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dirigenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità».

[18]       Il che rispecchia la nozione fornita del dolo da parte da Marco Antistio Labeone «omnis calliditas, fallacia, machinatio ad circumveniendum, fallendum, decipiendum alterum adhibita».

[19]       In tal senso, Corte dei conti, Sez. III, centr. app., n. 399/2017.

[20]       V., ex multis, Sez. II, centr. app., n. 534/2014; Sez. giur. Puglia, n. 1628/2013; Sez. III, centr.app., n. 783/2013; n. 724/2013; n. 510/2014.

[21]       L’ARS aveva approvato le legge 23 marzo 1971, n. 7 (Ordinamento degli uffici e del personale dell’Amministrazione regionale), il cui art. 52, comma 1, limitava la responsabilità amministrativa dei dipendenti regionali (e solo di essi) al dolo e alla colpa grave.

[22]       Sulla conformità a Costituzione sempre dell’art. 52 della legge regionale siciliana si è espressa in successivi giudizi la Corte Costituzionale (sent. n. 123 del 1972; sent. n. 1031 del 1988, rel. A. Baldassarre, che sarà relatore, qualche anno più tardi, della sent. n. 29/95).

[23]       E che non ci fosse stata alcuna rassegnazione lo si notò a distanza di poco tempo dalla entrata in vigore della legge n. 19, in quanto si sollevò questione di violazione dell’art. 28 Cost. dinanzi alla Corte Costituzionale che, stante quel precedente siciliano, si espresse favorevolmente nel 1998.

[24]       Il decreto legge n. 174/2012 reca “Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, …”. Per la evoluzione della legislazione in materia di controllo indipendente esterno della Corte dei conti – e sul fenomeno giuridico-parlamentare delle “leggi-risacca” – si rimanda a R. Scalia, “La cultura del controllo indipendente esterno nell’ordinamento italiano. Metodi e tecniche di analisi per il perseguimento del principio del buon andamento”, in “La cultura del controllo indipendente esterno nell’ordinamento giuridico italiano”, ed. Cacucci, Bari, 2000, 55-104.

[25]       V. art. 65, comma 4, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che avrebbe richiesto una analisi economica, sotto il profilo del costo del lavoro pubblico, di tutte le strutture amministrative, sia di quelle dei Ministeri sia di quelle delle Regioni e degli Enti Locali.

[26]       Il riferimento è al referto elaborato nell’aprile del 2019 in occasione di una richiesta avanzata alla Corte dalla VIII Commissione “Lavori pubblici, Comunicazioni” del Senato della Repubblica.

[27]       Nella delib. n. 25/2018/G riguardante “Lo stato di attuazione della linea 1 della metropolitana di Napoli”; nella delib. n. 11/2018/G; nella delib. n. 6 del 25 maggio 2016, in materia di ricorso al “global service”; nella delib. 21 marzo 2018, n. 5/2018/G, con riguardo alla utilità dei sistemi concessori.

[28]       Sulla organizzazione precedente (Seminario dei controlli, Seminario di formazione permanente) dedicata alla formazione iniziale e all’aggiornamento dei Magistrati della Corte dei conti, v. Simonetta Rosa, Il ruolo del Seminario della formazione permanente, in “La cultura del controllo indipendente nell’ordinamento italiano” (a cura di R. Scalia), Cacucci ed., Bari, 2020, 111-146.

[29]       Sul punto si suggerisce la lettura di Rosario Scalia, Il ruolo e le funzioni di controllo della Corte dei conti. L’intervento nel settore dei lavori pubblici…, in Riv. Corte dei conti, n. 4/2021, 45-59.

[30]       In tal senso, G. Colombini, Il rapporto tra giurisdizione civile e contabile in materia di responsabilità erariale, in Atti del Convegno “Il ruolo della Corte dei conti al servizio della collettività nell’evoluzione delle sue funzioni”, Torino, 11-12 ottobre 2022, in Quaderni della Rivista n. 2/2022, ed. Corte dei conti, pagg. 107-114.

[31]       È stata questa la giustificazione fornita dal Presidente del Consiglio dei ministri in occasione della conferenza-stampa nella quale si è data una informativa sui contenuti del decreto-legge.

[32]       F. Garri ed altri, I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano, Giuffrè, 2007, 159; M. Smiroldo, Le tecniche di protezione delle risorse patrimoniali erariali, in A. Canale, La Corte dei conti. Responsabilità, contabilità, controllo, Milano, Giuffrè, 30.

[33]       In tal senso, A. Benigni, Prima lettura del d.l. n. 76/2020 tra formante legislativo e interpretazione costituzionalmente orientata, in Riv. Corte dei conti, n. 5/2020, 5.

[34]       Si richiama l’attenzione sulla contestuale scelta politico-amministrativa di “circoscrivere”, nell’area del penale, il reato dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). Sul punto la relazione illustrativa al d.d.l. A.S. n. 1883 così si esprime: «La disposizione interviene sulla disciplina dettata dall’articolo 323 del codice penale, relativo all’abuso d’ufficio, attribuendo rilevanza alla violazione da parte del pubblico ufficiale e dall’incaricato di un pubblico servizio, nello svolgimento delle loro funzioni, di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge attribuendo, al contempo rilevanza alla circostanza che da tali specifiche regole non residuino margini di discrezionalità per il soggetto, in luogo della generica previsione che fa generico riferimento alla violazione di norme di legge o di regolamento».

[35]       In tal senso, A. Benigni, art. cit., 5-6.

[36]       V. C. Pinotti, La responsabilità amministrativa: problematiche attuali e prospettive future, in Atti del Convegno per i 160 anni della istituzione della Corte dei conti (Torino 11-12 ottobre 2022), Quaderni della Rivista n. 2/2022, ed. Corte dei conti, Roma, pagg. 95-105.

[37]       V. Massimiliano Atelli ed al., Il dolo contabile dopo l’art. 21 del decreto-legge “Semplificazioni” tra contraddizioni e incoerenze di sistema, già cit., in Riv. Corte dei conti, n. 6/2020. V. anche Andrea Giordano, La responsabilità amministrativa tra legge e necessità. Note sull’art. 21 d.l. n. 76/2020, in Riv. Corte dei conti, pagg. 14-21; Massimo Perin, Le modifiche (o soppressione) della responsabilità amministrativa per colpa grave. Saranno utili? Probabilmente no, in <www.lexitalia.it>, 25 agosto 2020.

[38]       V. H. Bonura, “La paura della firma e la “nuova” responsabilità amministrativa: il decreto Semplificazioni tra equilibri ed equilibrismi…”, in D. Bolognino, H. Bonura, A. Storto, I contratti pubblici dopo il decreto Semplificazioni. Le principali novità (…), Piacenza, Ed. La Tribuna, 2020, 87 e ss.; M. De Paolis, La responsabilità amministrativa nella gestione dei fondi comunitari dopo il d.l. n. 76/2020, in AziendItalia, 2020, 207 e ss. In generale, sulla gestione dei fondi comunitari, Angelo Orofino, La Corte dei conti europea e il controllo nazionale dei finanziamenti comunitari. Collaborazione o integrazione tra Istituzioni superiori di controllo, in “La cultura del controllo indipendente nell’ordinamento italiano” (a cura di R. Scalia) Cacucci ed., Bari, 2020, 205-231.

[39]       Sulle differenze tra controllo concomitante e controllo sulla gestione, le SS.RR., a suo tempo, elaborarono un documento: la delibera n. 29/2009 recante “Aspetti applicativi dell’art. 11, cc. 2 e 3, l. 4 marzo 2009, n. 15”. Purtroppo, tali indicazioni non hanno trovato alcuno spazio di esecuzione in quanto tale tipologia di controllo (che avrebbe dovuto rientrare nell’alveo del controllo sulla gestione già disciplinato dalla l. n. 20/94) non ha trovato accoglienza alcuna tra le attività svolte, in questi anni, della Corte dei conti.

[40]       In tal senso, Anna Maria Lentini, Conclusione dei lavori. Temi affrontati e spunti di riflessione, in “Pubblica amministrazione e impiego pubblico. Prospettive di riforma nel quadro delle iniziative di ripresa del Paese”, Corte dei conti, Quaderno n. 2/2021 della Rivista Corte dei conti (Atti del Convegno tenuto a Madonna di Campiglio, 1-2 luglio 2021, a cura di Roberto Avoli), 139-140, www.rivistacorteconti.it.

[41]       V. Angelo Canale, Responsabilità amministrativa e paura della firma, in Quaderno n. 2/2021 (a cura di Roberto Avoli) cit., 133-136, www.rivistacorteconti.it.

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